Per lui, che odia il 18 (l’articolo) e ama l’8 (euro lordi all’ora, quel che paga ai suoi dipendenti), che non sopporta chi porta il giubb8 perché gli tocca far perquisire i dipendenti (sempre quelli a 8 euro l’ora, lordi) per vedere se si portano a casa una scamorza dalla cucina, per questo facci8 da federale felice che sembra festeggi la marcia su Roma, per egli si potrebbe coniare l’espressione EVITEATALY.
Ma la sostanza non cambia.
venerdì 27 dicembre 2013
martedì 24 dicembre 2013
Auguri di...
Buone Feste!!
Soggetto: "Chitarra Simon&Patrick e strano Personaggio, in clima natalizio" ;)
PH. photonikart@gmail.com
domenica 22 dicembre 2013
NO, GRAZIE, SON GIA’ RICCO DI MIO.
Da “Repubblica”:
Uno shopping natalizio indimenticabile per i clienti del supermercato Walmart di Tewksbury, una piccola città del Massachusetts a venti chilometri da Boston. Venerdì sera tra gli scaffali e con tanto di carrello ha fatto la sua apparizione la pop star Beyoncé Knowels. La diva ha acquistato qualche giocattolo per la sua bambina e una copia del suo nuovo album. Ai microfoni del supermercato ha poi annunciato un regalo per tutti i presenti: un buono spesa da 50 dollari. Gli scatti dell'insolita trovata promozionale sono stati pubblicati sul suo profilo Facebook.
Repubblica - Foto - USA Sorpresa al supermarket: c'é Beyoncé
Un buono spesa? Ma perché?
Non basta vedere la tua faccia e sentire la tua “musica” morta e priva di senso?
Non basta ciucciarsi la pantomima della star che si mescola con la gente comune e fa la spesa al supermercato spingendo il carrello, comprando i giocattolini da due soldi di Walmart, che tenera, che democratica?
No, adesso anche l’elemosina?
50 dollari di buono spesa, perché? Cosa spinge una stronza ricca e detestabile a fare così?
Ha bisogno d’amore? Le è mancato l’affetto, da piccola?
Che schifo. E che occasione sarebbe per scriverci una canzone, fosse ancora in giro Zappa…
Il titolo lo fornirei io: Ship the fifty to your deep south, baby.
Uno shopping natalizio indimenticabile per i clienti del supermercato Walmart di Tewksbury, una piccola città del Massachusetts a venti chilometri da Boston. Venerdì sera tra gli scaffali e con tanto di carrello ha fatto la sua apparizione la pop star Beyoncé Knowels. La diva ha acquistato qualche giocattolo per la sua bambina e una copia del suo nuovo album. Ai microfoni del supermercato ha poi annunciato un regalo per tutti i presenti: un buono spesa da 50 dollari. Gli scatti dell'insolita trovata promozionale sono stati pubblicati sul suo profilo Facebook.
Repubblica - Foto - USA Sorpresa al supermarket: c'é Beyoncé
Un buono spesa? Ma perché?
Non basta vedere la tua faccia e sentire la tua “musica” morta e priva di senso?
Non basta ciucciarsi la pantomima della star che si mescola con la gente comune e fa la spesa al supermercato spingendo il carrello, comprando i giocattolini da due soldi di Walmart, che tenera, che democratica?
No, adesso anche l’elemosina?
50 dollari di buono spesa, perché? Cosa spinge una stronza ricca e detestabile a fare così?
Ha bisogno d’amore? Le è mancato l’affetto, da piccola?
Che schifo. E che occasione sarebbe per scriverci una canzone, fosse ancora in giro Zappa…
Il titolo lo fornirei io: Ship the fifty to your deep south, baby.
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sabato 14 dicembre 2013
TALENT SNOB, TALENT STOP
Sul Fatto Quotidiano del 14 dicembre Andrea Scanzi scrive
un articolo su X-factor.
“Successo a prova
di snob”, titola, tessendo sostanzialmente le lodi di un prodotto (format!)
popolare e appuntando lo scritto di osservazioni interessanti.
Per dirne un paio, “demonizzarlo
non ha senso: è certo sbagliato che sia l’unica forma per emergere, ma proprio per questo suona masochistico
stroncarla a prescindere”; oppure “è
intrattenimento puro. Riuscito e ben
fatto. Un prodotto ben confezionato… anche i difetti… contribuiscono a
rafforzare la partecipazione dello
spettatore, che tifa, si emoziona e si arrabbia”.
Non so se Scanzi (che generalmente apprezzo molto) quando
scriveva sul Mucchio Selvaggio avrebbe affermato le stesse cose, ma a parte
questo trovo che manchi del tutto la considerazione di una “terza via”, o third
stream per rimanere in tema musicale: uno né snob né coatto può dire che
X-factor è brutto?
Ma mica perché è da demonizzare, macché: è che come
spettacolo fa proprio venire due cosi così.
E’ una pizza, e lo sarebbe anche con musica di altro
livello.
Se non stai lì con una mano ai social network per
twittare, scrivere su Fb, o al limite mandare sms, che fai nei tempi morti?
Che fai durante pubblicità, sproloqui dei giurati, sproloqui
del presentatore, siparietti, scene del back-stage, immagini dei papà
immagonati?
Che fai se vuoi soltanto ascoltare qualche
giovanotto/ragazzina che canta, visto che quella è “l’unica forma per emergere”?
Ti rompi i coglioni, ça va sans dire. Io trovo persino
Sanremo più veloce e “musicale”.
Altro discorso se la buttiamo sulla contemporaneità,
sulle fasce d’età, sull’interazione in tempo reale con i social e la rete.
Però qui siamo distanti da ogni “sostanza” musicale: c’è
poca polpa, insomma, perché la polpa vera sta da un’altra parte. E sta
nell’idea di emergere rapidamente, con gli enormi mezzi
tecnologici/massmediologici a disposizione oggi, con la possibilità di
propagare la propria fama alla velocità di un virus a prescindere dalle idee,
dall’esperienza, dall’anima.
Insomma, solo se diamo per scontato che “successo e fama”
equivalgono a “buona musica” allora sì, siamo in un talent show.
Ma, nel deprecabile caso, io continuerò ad annoiarmi lo
stesso.
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venerdì 13 dicembre 2013
JIM
A 83 anni è morto Jim Hall. Tanto il suono della sua chitarra era morbido, tanto era vasta la sua visione della musica: unica era la sua capacità di costruire dialoghi e rapporti musicali con chiunque, anche in possesso di stili diversi. Il suo, di stile, era riconoscibilissimo; con un fraseggio sinuoso e mai banale e una capacità di armonizzare assolutamente eccezionale, stupiva l’originalità del suo approccio anche ai temi più noti.
Era un musicista sobrio, intelligentissimo, sempre alla ricerca di un punto di vista nuovo: Jim Hall è una figura imprescindibile per capire la chitarra ed il jazz del dopoguerra.
Indicare i titoli più meritevoli nella sua discografia è esercizio inutile, così è meglio affidarsi al gusto personale; per esempio The bridge di Sonny Rollins vede la chitarra di Hall come unico strumento armonico, ed il suo accompagnamento minimale è in alcuni punti sbalorditivo per asciuttezza ed efficacia.
Alone together, in duo con Ron Carter, è invece uno dei modi migliori per ascoltarlo in dimensione live, e rendersi conto che l’improvvisazione stimolava moltissimo la sua intelligenza musicale e la sua originalità.
Maestro di tanti, Abercrombie, Scofield, Frisell, Metheny, in moltissimi lo piangeranno.
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mercoledì 11 dicembre 2013
TALENT SHOW, TALENT BOH
Non riesco a vincere la noia. Potrebbero suonare le
variazioni Goldberg, tutto il repertorio di Robert Johnson, qualsiasi cosa. Io
finisco per annoiarmi, e anche piuttosto rapidamente.
La figlia di un amico è in finale tra poche ore. A
X-factor.
Da settimane, mesi, sui social network è spuntato un
florilegio di “mi piace”, “condividi”, “vuoi partecipare al gruppo”. Entusiasmo
alle stelle: sembra sia arrivata la Callas della musica popolare.
Il padre, musicista lui stesso, setaccia con costante
inflessibilità il web alla ricerca di tutto il ciarpame gossip che riguarda la
figliola e lo pubblica, per esporlo al pubblico ludibrio.
In pratica, esattamente quello che stanno facendo anche
gli altri papà e mamme con pargoli impegnati nell’artistica tenzone.
E giù sghignazzate sul cretino che ha scritto questa
roba, ma dove prende le informazioni, sì figuriamoci, non è vero che è
raccomandata è soltanto la migliore, sono tutti invidiosi, eccetera; vagonate
di amici/amiche a sbranare i malcapitati coglioncelli che postano in rete
notizie balenghe.
In pratica, esattamente quello che stanno facendo anche
amici/amiche degli altri papà e mamme.
Basterebbe solo questo, che pure è niente in confronto al
resto del baraccone, a smontare ogni desiderio di avvicinarsi in nome della
musica.
Un casino pazzesco: banner, slogan, striscioni, fan club, com’è
carina, schermi giganti, sei invitato… in sostanza un incitamento alla fuga.
Ho provato, mi sono detto “ma lei non è male, è brava, adesso
ci sforziamo e vediamo se un’occhiata oltre il bordo rivela panorami
interessanti”.
Bisogna superare alcuni ostacoli.
Per prima cosa, la bruttezza della trasmissione da un
punto di vista squisitamente visivo. Ambientazione e scenografie un poco più
pacchiane del matrimonio di un capoclan di Scampìa, luci e inquadrature e
stacchi da discoteca riminese dopo tre o quattro pasticche, testi e stile di
conduzione perfetti per un villaggio turistico: è dura, eh?
Andiamo avanti, ci sono gli affascinanti giurati da
affrontare. Detto che per la Ventura basta il nome, che per i soldi anche un
musicista serio potrebbe fare la qualunque, che mi è parso di vedere pure la
controfigura scadente e malaticcia di Morgan, mi è rimasta curiosità per quell’incredibile
essere che si veste di fucsia o qualcosa di simile. Insomma, chi è? Cosa fa
nella vita? Quali sono le sue aspirazioni? Perché bisognerebbe conoscerlo?
Durissima anche qui.
A dire il vero non è passato COSI’ tanto tempo. Non ho
resistito più di 20 - 25 minuti (in più riprese) totali, perché la noia mi ha
sempre aggredito con una veemenza devastante.
Ho ascoltato qualche cover e i brani originali.
Tra le cose notate, l’idiozia di voler proporre come
cover di Hendrix “Little wing”. Quel tizio non ce l’aveva un arrangiatore
(coach? Allenatore? Sparring partner? Manager?) a dirgli “va bene la cover di
Jimi ma non quella, perché è praticamente IMPOSSIBILE tirarci fuori qualcosa di
originale e interessante o che non sia già stato fatto miliardi e miliardi di
volte”?
Ma i brani originali… non s’affrontano, no. Certo non si
capisce perché uno bravo a scrivere dovrebbe mettere le sue cose migliori in
una trasmissione tv usa e getta, ma un limite… ce lo vogliamo porre?
In realtà X-factor può servire, al massimo, a cercare di
intuire se uno o l’altro partecipante possieda capacità interpretative di
qualche tipo. Diciamo che essendo impossibile premiare la musica (davvero,
qualche passaggio delle canzoni scritte per i finalisti risulta imbarazzante)
si riconosce un attitudine, un carattere, un’idea di possibilità futura.
E’ solo che il talento non c’entra niente, ad onta del
nome. Il “talent” è parola troppo grossa per queste X, dove i già elefantiaci
meccanismi del business musicale sono appesantiti dalle esigenze del business
televisivo; l’ibrido che ne risulta è un manuale di assemblaggio per aspiranti
star dello spettacolo, un esempio di My fair lady versione televisiva con
l’ambizione non della buona società bensì di un buon contratto con qualche
major.
E mi dispiace per la brava figliola, ma appena la noia mi
ha ri-azzannato, via, a tutta velocità…
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lunedì 22 aprile 2013
Nam myoho renge kyo!
Tre anni or sono me ne andai con un amico in un negozio
di strumenti musicali fuori città. La visita serviva a provare ed eventualmente acquistare
un pick up per chitarra acustica: in effetti il pick up me lo portai a casa, ma
passai almeno mezz'ora a suonare e coccolare una bella chitarra folk della
Yamaha, serie L, che mi stupì per l’eccezionale rapporto qualità / prezzo.
Ne fummo tanto colpiti, io e l’amico, che alcuni mesi
dopo quando lui si sposò accolse con grande gioia il regalo che gli facemmo in
gruppo, quello stesso modello Yamaha che avevo poi fatto mandare a prendere dal
mio chitarraio di fiducia.
Un paio di settimane fa, spulciando tra gli annunci di un
sito molto frequentato, vedo in vendita una chitarra Yamaha della serie L, ad
un prezzo assai interessante.
Contattato il proprietario, mi accordo per un incontro.
Abita ad una trentina di chilometri da Reggio, nessun problema a trovare il
luogo dell’appuntamento.
Lo strumento è praticamente nuovo, i legni non presentano
un solo segno.
Ottima chitarra, riconosco il manico ben fatto e la sento
già mia. Mi sembra d’averla sempre suonata.
Nei cinque minuti di chiacchiere post-affare concluso,
chiedo al gentilissimo ragazzo dove l’ha comprata.
“L’ho presa a C., nel negozio di Tizio”.
“Ma dai. Lo conosco. Scusa, ma quando l’hai acquistata?”
“Boh, circa tre anni fa. Due e mezzo, mi pare…”
Insomma. E’ la stessa chitarra che avevo provato io. La
prima “serie L” che abbia mai suonato.
E’ tornata da me, per appartenermi.
Magari è sciocco, però la cosa mi ha colpito.
Ovviamente si tratta di un puro caso, ma in realtà da
tempo cercavo quello strumento, e diverse volte ho rinunciato in extremis ad
altri acquisti, diversi, per continuare ad aspettare.
Insomma, quando ci penso mi viene da sorridere in modo un
po’ ebete, come davanti ad un enigma incomprensibile… e mi torna in mente un
sacco di musica misticheggiante, tipo questa:
Del resto il titolo di questo fantastico disco è The
cycle is complete, come volevasi dimostrare.
Nam myoho renge kyo!
domenica 24 marzo 2013
Primavera piovosa.
Ascoltavo una trasmissione radiofonica, stamattina. Un canale Rai, l’unico anzi che riesca ad ascoltare a prescindere dagli orari e dai conduttori.
Parlavano di radiofonia, di storia della radio ed in particolare di Radio Tirana.
Hanno mandato una sigla del 1988 registrata alla meno peggio, con tutte le caratteristiche che poteva avere la sigla di una radio di stato nell'Albania di 25 anni fa. Musica pomposissima, marziale, un po’ nostalgica e un po' carica di fiducioso pathos, su cui si inseriva la voce stentorea e sicura di sé di uno speaker che io immaginavo in uniforme, sull'attenti, durante la lettura dell’incomprensibile e certamente inutile testo.
Passa un minuto e il conduttore annuncia un ascolto / confronto con il presente, dicendo “a Tirana c’è stata una primavera e lo si sente anche dalla radio, dalla sua nuova sigla”.
Parte il jingle.
Sonorità contemporanee, digitali e precise, voci maschili e femminili sovrapposte e distorte e cariche di echi che sembrano annunciare l’Apocalisse o uno strip show, effetti roboanti, suoni elettronici martellanti.
Non fa schifo, peggio.
Orrenda senza speranza.
E’ la fotocopia di qualsiasi repellente jingle di qualunque radio commerciale della minchia che tortura l’etere oggi, qui e ovunque come qui.
E su RadioRai mi dici che questa sarebbe la “primavera”?
Il progresso?
La modernità?
Il MERCATO, magari?
Conduttore, non è che ha piovuto da marzo a giugno, quella primavera lì?
E te ti sei bagnato troppo?
Parlavano di radiofonia, di storia della radio ed in particolare di Radio Tirana.
Hanno mandato una sigla del 1988 registrata alla meno peggio, con tutte le caratteristiche che poteva avere la sigla di una radio di stato nell'Albania di 25 anni fa. Musica pomposissima, marziale, un po’ nostalgica e un po' carica di fiducioso pathos, su cui si inseriva la voce stentorea e sicura di sé di uno speaker che io immaginavo in uniforme, sull'attenti, durante la lettura dell’incomprensibile e certamente inutile testo.
Passa un minuto e il conduttore annuncia un ascolto / confronto con il presente, dicendo “a Tirana c’è stata una primavera e lo si sente anche dalla radio, dalla sua nuova sigla”.
Parte il jingle.
Sonorità contemporanee, digitali e precise, voci maschili e femminili sovrapposte e distorte e cariche di echi che sembrano annunciare l’Apocalisse o uno strip show, effetti roboanti, suoni elettronici martellanti.
Non fa schifo, peggio.
Orrenda senza speranza.
E’ la fotocopia di qualsiasi repellente jingle di qualunque radio commerciale della minchia che tortura l’etere oggi, qui e ovunque come qui.
E su RadioRai mi dici che questa sarebbe la “primavera”?
Il progresso?
La modernità?
Il MERCATO, magari?
Conduttore, non è che ha piovuto da marzo a giugno, quella primavera lì?
E te ti sei bagnato troppo?
venerdì 22 marzo 2013
Gazzetta di Reggio - Le parole di Franco sul Daolio
Articolo pubblicato sulla Gazzetta di Reggio, l'intervento di Franco sul Premio Daolio.
Photo V.P. photonikart@gmail.com
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martedì 12 febbraio 2013
Kurt Cobain - Parte 4a (conclusione)
Kurt Cobain
Monografia - Parte 4a (conclusione)
“Avevo la responsabilità di non far sapere ai ragazzi che
usavo la droga”, KC.
Il problema della sua tossicodipendenza, dopo un’iniziale
negazione, va a far parte integrante delle leggende del personaggio. Che si
tratti di un ingenuo intento pseudoterapeutico (“il dolore allo stomaco mi
faceva venir voglia di morire... all’inizio, dopo tre giorni di eroina, non
avevo più il dolore e presi la decisione di farmi per un anno e poi smettere,
perchè non volevo morire”, KC) oppure no, non ha una grande importanza, visto
ciò che scrive per esempio il Los Angeles Globe. Cioè che Cobain è drogato, che
sua moglie Courtney Love del gruppo Hole è drogata, che la loro bambina Frances
Bean nascerà drogata.
Come sempre, un purtroppo naturale processo di
normalizzazione ha steso la sua lunga mano a smussare gli angoli più acuti
della scena alternativa. Dell’iniziale impeto qualcosa è rimasto e rimarrà, i
Pearl Jam ad ingaggiare una solitaria ma perdente battaglia contro l’agenzia
che detiene il monopolio sulle prevendite dei biglietti in USA, la
Ticketmaster; gli stessi Nirvana che combattono il tentativo di condizionare la
loro esibizione allo spettacolo degli MTV Video music Awards. Ma normalizzare è
la norma: e quando la musica, medium potente, è anche influenza sui costumi e
le mode, è addirittura inevitabile.
Tra il ’92 e il ’93 la popolarità del trio cresce a
dismisura, mutandosi in ingombro. Le droghe, i problemi di salute, gli
atteggiamenti rissosi e poco concilianti, insomma l’apparente, perfetta
aderenza allo standard “belli e dannati”, sono malignamente accolti da un
esasperante scandalismo giornalistico che prospera come gramigna.
In particolare, l’11 agosto 1992 la rivista Vanity fair
pubblica un articolo di Lynn Herschberg che avrà numerosi e perniciosi effetti
sulla vita familiare di Cobain.
La Herschberg sostiene:
- che Courtney Love possiede una devastante personalità
- che ha indotto Kurt all’uso di eroina, citando un’anonima
fonte dallo staff del gruppo
- che durante i primi mesi di gravidanza ha assunto
stupefacenti.
L’immagine che viene smerciata al mondo è quella di un
giovane schiavo dei suoi vizi e di quelli della moglie, tutt’e due talmente
persi nella spirale delle loro perversioni da far chiedere a qualcuno se sia
giusto lasciar loro la potestà della nascitura. Frances Bean viene alla luce il
18 agosto: nel giro di poche settimane un tribunale di Los Angeles stabilisce
che i genitori non possono stare da soli con la figlia. Solo nel marzo
successivo, dopo crisi depressive, cure disintossicanti, ricadute, minacce di
suicidio, l’autorità giudiziaria decreta la piena affidabilità di papà e mamma.
“A parte loro tre, tutto ciò che gira attorno ai Nirvana è
in mano a dei pezzi di merda”. Sono parole di Steve Albini, the punk stalinist,
come viene definito dalla stampa specializzata. Albini è l’uomo scelto dalla
band per produrre l’atteso seguito di “Nevermind”, seguito per il quale entrano
in sala di registrazione nel marzo 1993. Con l’ex produttore dei Pixies (gruppo
molto amato da Cobain) si lavora sodo e con rapidità, in una logica da small
combo che porta a concludere tutto in un paio di settimane. Nonostante il buon
lavoro di Albini sia riconosciuto, le incisioni provocano lo sconcerto di
alcuni manager e, tutto sommato, non soddisfano completamente nemmeno i
Nirvana. Lo stalinista punk, affermando d’aver esaurito il suo compito, accetta
di buon grado l’intervento di Scott Litt, produttore dei REM, per un parziale
remixaggio. In settembre esce quello che doveva intitolarsi prima “I hate
myself and I want to die”, poi “Verse chorus verse”: adesso è “In utero”.
Ogni cosa in questo disco, dalla copertina alla musica, dai
testi al clima che è in grado di suscitare, sembra rechi con sé un’ombra cupa,
dolente e minacciosa; l’energia in alcuni momenti sfocia in autentica violenza
sonora e vira verso un segno negativo. Non più marchio della propria presenza,
ma sfregio. Arma più che vessillo.
Dal punto di vista timbrico (qui, soprattutto, i risultati
di Steve Albini) è un viaggio all’indietro nel tempo: “In utero” recupera,
aggiungendovi pienezza ed una certa dose di fascino “naturalistico”, quasi da
live, sonorità più tipicamente punk che ricordano a volte “Bleach”. La voce di
Kurt è spesso strozzata o, come in Milk it, ridotta ad una specie di
rigurgito amplificato.
Se “Nevermind” dava l’idea di una spinta verso l’esterno,
“In utero” è introspettivo e centripeto fin dal titolo. I testi sono ricchi di
riferimenti escatologici e corporali; Tourette’s, Cufk, tish, sips
(anagramma di fuck, shit, piss), Milk it (“ectoplasma, ecto-scheletrico
/ compleanno del necrologio”), Heart-shaped box (“vorrei poter mangiare
il tuo cancro quando diventi nera”).
Non c’è nulla di tranquillizzante in quest’opera; anche la
chiusura, affidata ad una melodia dall’andamento rilassato come All
apologies, contiene elementi d’inquietudine, con una chitarra non
perfettamente accordata la cui linea intreccia continuamente il canto.
Che sia una reazione all’esperienza di due anni al centro
dello star-system, o alle drammatiche vicende personali (o ad entrambe le cose,
com’è probabile), l’ultima testimonianza discografica in studio di Cobain, se
può essere parzialmente vista alla stregua di un diario, assomiglia ad
un’intima e nefasta confessione sulle brutture del mondo. Di più, ad una
volontà, un desiderio di ridiventare feto, chiuso, protetto ed amato: “butta il
tuo cordone ombelicale / così che possa arrampicarmi e rientrare”. Sembrerebbe
psicologismo da quattro soldi (e forse lo è, se quasi sempre “It’s only
rock’n’roll”, Jagger & Richards docet), eppure è impossibile allontanare
una costante sensazione di tristezza, di rabbia acuita da un onnipresente
malessere.
Heart-shaped box è un magnifico brano, una possibile
canzone d’amore. Che Kurt esprime così: “Mi guarda come se fossi dei Pesci
quando sono debole / sono stato chiuso nella tua scatola a forma di cuore per
una settimana / sono affogato nella tua trappola di catrame / vorrei poter
mangiare il tuo cancro quando diventi nera”.
E in Rape me: “Violentami, amico mio / violentami
ancora / non sono l’unico / odiami / fallo e fallo ancora”. Facile pensare agli
eventi legati alle intrusioni nella sua vita privata.
Rape me, con un riff che è quasi autocitazione, è in
puro Nirvana style tale e quale all’iniziale Serve the servants
(gran bel titolo, Servi i servitori): “La rabbia giovanile mi ha ben ripagato /
adesso sono annoiato e vecchio”.
Cobain affida in ogni modo alla chitarra il compito più
scabroso: impugnata come una mazza ferrata oppure come un manufatto dalle
misteriose applicazioni (Milk it), il suo strumento è perfetto per
portare la tensione emotiva alle stelle. Radio Friendly Unit Shifter è
un’impressionante fusione di riff elementari e rumorismo puro: l’assolo è una
geniale accozzaglia di feedback e violente percosse musicali. Frances Farmer
will have her revenge on Seattle
è dedicata all’attrice americana Frances Farmer, la cui persecuzione negli anni
’50 è una delle storie più tristi e vergognose che si possano immaginare; il
contrasto tra dinamiche è notevole ed il sound generale rende rabbioso
l’omaggio di Kurt: “Lei tornerà come il fuoco per bruciare i mentitori, e lascerà
una coltre di cenere sul terreno”.
“In utero” è il massimo del caos raggiunto in studio dai
Nirvana; parossismo sonoro, melodie ansiose, un’angoscia quasi palpabile: la
bellezza del disco ha un fascino più fosco che mai.
Un’analisi accurata, anche tecnica, della musica di Cobain,
sarebbe stata interessante. Quel suo utilizzare armonie sottintese o minimali,
bicordi incerti (in armonia, un accordo per essere tale deve contenere almeno 3
voci), fa risaltare ancor di più la sua capacità di scrivere melodie facendole
stagliare su un accompagnamento di tonalità ondeggiante: ma è l’aspetto che
interessa meno, a giudicare da ciò che si continua a scrivere di lui.
Mentre la stampa non demorde dal solito atteggiamento, i
Nirvana dopo l’uscita di “In utero” chiamano con loro un secondo chitarrista,
Pat Smear, ex membro dei Germs.
Nel novembre ’93 registrano dal vivo un album acustico, per
la famosa serie “MTV Unplugged”.
E’ un’altro splendido lavoro, pieno di ovattata malinconia
ma molto vitale, con diverse covers (ottima The man who sold the world
di Bowie, e Where did you sleep last night di Leadbelly è
sinceramente emozionante) e la partecipazione amichevole dei Meat Puppets. Se
c’era bisogno di una definitiva conferma sul repertorio di Kurt, eccola qui: le
sue composizioni non vivono in funzione dell’aggressività elettrica, godendo di
eccellente salute anche in atmosfere più tranquille. Anche se purtroppo, ormai,
della stessa salute non gode chi le ha ideate.
I mesi successivi sono la frenetica cronaca di una corsa
verso la distruzione.
Nel 1994, in gennaio, il gruppo tiene l’ultimo concerto in
terra americana, in febbraio inizia un tour europeo che si ferma in Germania:
altre date vengono annullate per presunti problemi di Cobain alla voce. In
marzo entra in coma, in Italia, dopo aver inghiottito decine di pillole di
Roipnol. Rientrato a Seattle, passa le settimane successive tra appuntamenti
con loschi personaggi, un ipotetico tentativo di suicidio, prove per una
terapia psichiatrica, ricoveri e fughe da un centro di riabilitazione,
occultamenti delle proprie tracce.
Il 5 aprile, scritti alcuni messaggi, si spara alla testa
con un fucile, in casa sua.
L’8 aprile un elettricista, recatosi per lavoro
nell’abitazione, scopre il corpo.
Un’ora dopo, dolore, dispiacere, commozione, isteria,
sciacallaggio, follia e rumore di registratori di cassa sono inestricabilmente
abbracciati tra loro.
Nell’Internet Nirvana Fans Club c’è una Murder Theory Home
Page, di cui Tom Grant detiene il copyright. Tom Grant è l’investigatore privato
che accusa Courtney Love d’aver fatto assassinare il marito.
I biglietti degli ultimi concerti dei Nirvana, annullati,
sono messi in vendita in Inghilterra a 100 sterline l’uno.
Nel 1995 una casa d’aste americana mette in vendita il
sangue raschiato via da una chitarra di Cobain dopo un concerto. Offerta
minima: 7500 dollari.
In un’eccellente serie a fumetti, The Preacher, lo
sceneggiatore scozzese Garth Ennis si diverte a prendere in giro
l’americanissima e para-necrofila Cobain-mania.
Uno dei personaggi secondari di questo serial è un ragazzo
che, per emulare il suo eroe, si spara in faccia un colpo di fucile. Il feroce
sarcasmo di Ennis consiste nel farlo sopravvivere in compagnia di un padre
sceriffo destrorso e paranoico, trasformandolo poi in una stella del rock ed
assegnandogli un nome d’arte programmatico: sfigurato dalla ferita, il giovane
diventa per tutti Arseface, Facciadiculo.
Un commosso articolo su Spin firmato da Charles Aaron, poco
dopo la morte di Kurt, riporta l’incredibile commento di una sociologa, Donna
Gaines: “Il suo suicidio è stato un tradimento. Esso nega un tacito contratto
tra i membri di una generazione che vedeva la dipendenza gli uni dagli altri
per rovesciare la negligenza, la confusione e la frustrazione ereditate dalla
generazione precedente. Cobain ha spezzato questa promessa. Se n’è andato”.
Aaron risponde con parole distillate dal buon senso: “Kurt
Cobain era un artista, le cui canzoni esprimevano le sue dolorose,
contraddittorie emozioni. Aveva responsabilità verso la sua arte, la sua
famiglia e i suoi amici. Non era sua la responsabilità di rovesciare la
negligenza dei genitori. Sostenere qualunque altra cosa è perversamente
arrogante”.
Figure come quella di Cobain originano a volte, nella
cultura di massa, visioni romantiche ma distorte, proiezioni di desideri e
rivendicazioni che finiscono per circondarne come un’aura l’immagine. Le frasi
della signora Gaines mostrano come nemmeno la morte interrompa quest’illusione.
Kurt Cobain era un uomo in carne ed ossa, nè più nè meno, e
le sue debolezze di uomo l’hanno portato dove per chiunque è sospesa ogni
possibilità di giudizio.
So long.
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domenica 10 febbraio 2013
Kurt Cobain - Parte 3a
Kurt Cobain
Monografia - Parte 3a
“Il rock – Star system e società dei consumi” è un libro del
neozelandese David Buxton, uscito in Italia nel 1987. Contiene una delle più
precise e spietate analisi del rock’n’roll come creatore di profitti, del suo
rapporto con l’industria discografica. Uno dei capitoli più interessanti
riguarda il cosiddetto star-system: “La qualità dell’essere una star diviene
dunque una sorta di macchina che trasforma il lavoro del musicista in un
prodotto di massa... In quanto star egli è proprietà, per un determinato
periodo stabilito dal contratto, di una casa discografica”.
Citando Mick Farren, cantante dei Deviants, giornalista e
ideologo della controcultura britannica, Buxton riporta: “Siamo stati obbligati
a pensare alla nostra stessa cultura in termini commerciali... Ci
ricondizionano a pensare come degli affaristi”.
Se c’è stato un gruppo emergente libero di agire anche sotto
contratto con una major discografica, questo risponde al nome di Nirvana. Per
“Nevermind” e “In utero” hanno avuto a disposizione i produttori che ritenevano
più opportuni, ed un potere decisionale che pochi possono esercitare.
Ma il contesto, il mondo nel quale si muovono, le
dissennatezze con cui fanno i conti quando appoggiano gli strumenti, sono le
stesse. Volenti o nolenti la “qualità dell’essere star” determina una serie di
aspettative. Quando Kurt dichiara “Io sono il portavoce di me stesso e il caso
vuole che ci sia un mucchio di gente attenta a quello che dico e a volte è
spaventoso, perchè sono confuso come loro”, mostra d’aver afferrato il
concetto. Anche se apparentemente in contraddizione con sé stesso, affermando
poi “Non c’è più ribellione nel rock: ecco perché spero che l’underground possa
influenzare le correnti dominanti e dare una scrollata ai ragazzi. Chissà,
magari potremo cambiare la vita di qualcuno, impedendogli di diventare un
viscido avvocato o un saldatore”.
E come puoi immaginare di farlo senza che la gente sia
attenta a quello che dici? Senza accorgerti che lì sotto al palco, ragazzi e
ragazze s’aspettano qualcosa? E’ naturale che sia così, è quasi “giusto”.
Cobain (come scriveva Melody Maker) non ha niente di diverso negli
atteggiamenti, nell’abbigliamento e nel linguaggio dai giovani che ballano ai
suoi concerti: sarebbe strano se non scattasse un meccanismo d’identificazione.
Al tempo stesso, quando questo genera tutti gli effetti collaterali del caso,
appare chiaro che non esiste la possibilità di sottrarsi a piacimento, di
funzionare ad intermittenza.
Kurt Cobain ha un atteggiamento ondivago: forse pensa di
poter comunicare ai propri coetanei un sogno di vittoria sulla frustrazione,
sull’apatia e la perdita di speranza che vengono attribuite alla sua
generazione. Contemporaneamente si rende conto che cercare di farlo attraverso
la musica è un processo non indolore, perché richiede di diventare insieme sacerdote
ed agnello sacrificale. Ed è questo che egli non accetta, pur avendo compreso
perfettamente il processo: dopo essere stato scioccamente, artificiosamente trasformato
in un simbolo generazionale, un’icona, non ammette di essere spogliato fino
all’intimità e poi adagiato sull’altare del culto di massa.
La sua è una titubanza sincera, normale, che non interessa
per niente all’indotto del rock’n’roll: riviste, libri, interviste, sedute
fotografiche, Mtv video awards, poster, magliette, cartoline, spille.
La normalità si vende molto, molto male.
“Bleach” piazza più di 30.000 copie, risultato ragguardevole
per essere il prodotto di una “indie”; ma proprio per il suo essere un prodotto
indipendente si trova escluso dai grandi canali distributivi. Si fatica a
trovarlo nei negozi. Solo una grossa compagnia discografica può garantire
sicurezza, da questo punto di vista. Anche se i Nirvana per il momento non
ambiscono a molto di più che diventare un gruppo di nicchia, senza la pretesa
di suonare davanti a platee sterminate, sentono che si potrebbe fare di meglio
per la loro promozione. Durante il 1990 hanno contatti con la Geffen records,
famosa soprattutto per essere l’etichetta dei Guns’n Roses e per aver accolto
nel proprio catalogo la difficile musica dei Sonic Youth; sono loro gli
artefici principali dell’accordo che i Nirvana sottoscriveranno l’anno dopo con
la major.
Nel frattempo, tra tournèe e qualche videoclip, Channing se
ne va. Ad ottobre arriva il partner ideale per Cobain e Novoselic: Dave Grohl,
“il batterista dei nostri sogni”.
Nel ’91 la compagnia di David Geffen firma il contratto con
i Nirvana. Per l’incisione del secondo disco i tre insistono nel mantenere come
produttore Butch Vig, lo stesso che l’anno prima li ha assistiti nella
preparazione di un EP. Con lui si sono trovati bene, e dopo alcune resistenze
da parte dei dirigenti della Geffen s’inizia a preparare il materiale per le
nuove registrazioni. In settembre, mentre la band è impegnata in una serie di
concerti, esce quello che è il disco destinato a segnare profondamente la
cronaca del rock nella prima metà degli anni ’90: “Nevermind”.
“Metà delle canzoni di Nevermind sono state scritte ai tempi
di Bleach, ma senza essere inserite nell’album. Non è che adesso ci sia un
cambiamento, siamo sempre stati fans della pop music”, KC.
“Nevermind” è una magnifica raccolta di canzoni, un disco
emozionante, inquietante, potente e lacerante; è un’opera che produce un
immediato senso d’identificazione, che svela la profonda sincerità della musica
dei Nirvana. Uno di quei dischi, rarissimi, capaci d’accompagnare per un lungo
tratto l’esistenza di chi ha la gioia di scoprirli ed amarli: capace
d’ascendere in brevissimo tempo all’Olimpo dei classici e d’influenzare
l’intera scena degli anni successivi.
Il suono del gruppo è notevolmente cambiato. In primo luogo
grazie all’inserimento di Dave Grohl, che è batterista migliore di Channing;
anche se la prima caratteristica è sempre la potenza, il modo di suonare di
Grohl è più ricco di sfumature e dinamico, meno ossessivo e metronomico. In
secondo luogo, la presenza di Butch Vig agisce da catalizzatore per tutte le
qualità che nella musica di “Bleach” erano rimaste latenti. Pare così una di
quelle straordinarie miscele ottenute grazie all’incontro tra musicisti con
idee e talenti fuori dall’ordinario ed un produttore illuminato, intuitivo,
come i lavori curati da Phil Spector, Joe Boyd o Jerry Wexler nel passato o, ai
giorni nostri, Brian Eno e Daniel Lanois.
Il risultato è un sound energico, viscerale, una specie di
tempesta elettrica sotto controllo, dove la voce appassionata di Cobain ha
finalmente un posto di primo piano; se confrontato con l’immagine esangue e la
musicalità anemica tipicamente di successo negli anni ’80, il suono di
“Nevermind” è un ciclone che spazza via baracche di compensato e lamiera.
Devastante.
Smells like teen spirit, singolo-ariete, contiene
molte delle caratteristiche che concorrono a fare del disco quello che è:
energia, potenza, melodia accattivante e una sconcertante, invidiabile
semplicità armonica. L’alternarsi di dinamiche contrapposte, forte/piano,
pieno/vuoto, con riff chitarristici e bei passaggi di batteria a delimitarne i
confini, diventerà uno dei loro marchi di fabbrica.
C’è una violenta bellezza, in questa musica. C’è persino una
parvenza di gioia: verrà anche dalla X generation e in parte dal punk, ma le
melodie di Come as you are, Lithium, On a plain sono
splendide. Mentre si stagliano su un accompagnamento fragoroso, dall’andamento
spezzato ed a volte così semplice da trovar posto in semplici bicordi, le
strofe delle canzoni di Cobain colpiscono per la loro purezza. Quello che in
“In utero” ri/diventerà tenebra e nichilismo, qui è furia musicale, cantabilità
spinta all’estremo.
La musica dei Nirvana nasce nel nome di un certo
antagonismo, ben lontana dall’idea di essere compiacente: ma se c’è una cosa
apprezzabile sopra ogni altra in “Nevermind” è proprio il felice matrimonio tra
pop-song e rock duro. In questa chiave, quello che in poco tempo venderà 7
milioni di copie è un disco che rappresenta davvero una novità. E funziona sia
considerandolo come antologia di brani sia, secondo il desiderio di Kurt, come
un album con un’accurata logica nella sequenza delle canzoni.
I Nirvana non hanno dimenticato l’hard punk da cui
provengono, ma sono capaci di smorzare i toni, di lasciare riposare i sensi per
qualche istante per poi assalire di nuovo con un settimo cavalleggeri di
decibel; anche dove l’aggressività è lanciata al massimo rimane un salvagente
melodico cui aggrapparsi o addirittura, come in Breed o Territorial
pissing, frammenti di un canto che sembra filastrocca, una merry melody
deformata e torta fino ad assumere le sembianze di una cantilena metallica.
L’immagine di Kurt Cobain esce da questi solchi vestita di grande magnetismo e
regala emozioni dal primo all’ultimo minuto; la sua è una bella voce, emotiva,
spesso tesa allo spasimo.
Polly e Something in the way, piccole gemme acustiche,
provano quanto sia capace d’espressività come cantante e quanto possano reggere
da sole, senza l’aiuto del fragore elettrico, le sue composizioni: sono Canzoni
a tutti gli effetti.
Rispetto a “Bleach” le parti di chitarra sono infinitamente
più riuscite. In “Nevermind” si può apprezzare il lavoro sui suoni ottenuti
grazie a normali apparecchiature analogiche, in una fase in cui la ricerca di
novità o miglioramenti timbrici attraverso sistemi digitali è già la norma. E
l’acustica usata per Polly pare sia una Stella da 20 dollari...
Gli assoli sono frequentemente la riproposizione della linea
melodica principale espansa da belle sonorità irruenti, ma almeno un paio di
essi (soprattutto In bloom) mettono in mostra una strana vena
d’astrattismo, una specie di feedback quasi cacofonico lontano mille miglia
dalle martellate del punk.
Ai Nirvana riesce ciò che non è riuscito a bands come Sonic
Youth, Husker Du e Dinosaur Jr.: rumore e lirismo si sono uniti da tempo nella
musica di questi gruppi, ognuno proveniente da un diverso orizzonte. I Sonic
Youth con il loro approccio intellettuale tipico dell’ambiente newyorkese, da
noise-band acculturata; gli Husker Du con il loro passato di punk rabbioso,
sfociato in un magnifico repertorio composto di canzoni epiche, dal respiro
potente ed immortale; ed infine i Dinosaur Jr., ipnotici, quasi allucinati, più
ispirati ai Led Zeppelin ed al sound degli anni ’70.
Nessuno di loro è però riuscito, nemmeno lontanamente, a
giungere ai risultati dei Nirvana. Anche con musica eccellente, e con alcuni
dischi imperdibili per capire il passaggio da un decennio all’altro, il loro
impatto sull’immaginario, sui processi identificativi, sul mercato, non è
certamente confrontabile con quello di “Nevermind”. Che è il disco giusto al momento
giusto: porta il rock sulla vetta assoluta delle classifiche spodestando
“Dangerous” di Michael Jackson, apre le porte a coloro che il rock non l’hanno
mai ascoltato e “vissuto”, crea un codice comune a buona parte dei giovani che
consumano musica. Il suo uscire dai limiti che solitamente circondano la musica
di genere assume connotazioni sociologiche; per un certo lasso di tempo sembra
che ascoltando i Nirvana s’ascolti contemporaneamente il tentativo di
esprimersi di milioni di ragazzi.
Non è un messaggio né una comunicazione ideologica. E’ più
l’esplicitarsi di una sensazione di disorientamento, una confusione espressa a
gran voce e senza timori, un modo di dire “ci sono anch’io, e faccio un sacco
di casino”: questo sentimento identitario sarà uno dei fattori che spingerà ai
massimi livelli lo sfruttamento commerciale del gruppo, nonchè la baraonda
mediatica attorno ad esso.
“E’ stato come andare a letto una sera mentre andava tutto
bene, ma risvegliarsi l’indomani mattina e sentir dire al giornale radio che
ero un nazista ammazzabambini”, KC.
“Potrò avere 43 anni ed essere un insegnante d’inglese, e
resterei sempre il batterista dei Nirvana”, D. Grohl.
Il successo di “Nevermind” comporta una serie di
conseguenze. La più concreta è la reazione del mercato discografico. Nel giro
di un anno, tra i milioni di copie vendute e l’effetto di trascinamento su
altri musicisti ed altri cataloghi, l’industria di settore viene letteralmente
risollevata dal suo precedente stato di torpore; grunge, nuovo rock, camicie a
scacchi, jeans strappati: sintetizzando, parole d’ordine e simboli che si
traducono ad una velocità impressionante in dati di vendite e grafici. Cobain,
la stella (su di lui si concentra la quasi totalità dell’attenzione pubblica),
diventa l’uomo del giorno. Se da un lato può reputare dignitoso il rapporto con
l’etichetta, la Geffen, dall’altro diventare per amore o per forza un monumento
vivente è cosa difficile.
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venerdì 8 febbraio 2013
Kurt Cobain - Parte 2a
Kurt Cobain
Monografia - Parte 2a
Aberdeen, 200 chilometri circa a sud di Seattle, è la città
in cui cresce Kurt Cobain, sballottato tra i genitori divorziati ed il
parentado che lo ospita a volte per lunghi periodi. Finito il liceo, con il
chiodo fisso del rock’n’roll come irrinunciabile strada per il proprio futuro e
quello del punk come condizione e stile di vita (“punk significa libertà
musicale. E’ dire, fare e suonare ciò che ti pare”, KC), inizia a fare e
disfare gruppi fino all’incontro con Krist Novoselic, che diventerà suo amico e
bassista fino alla fine dell’avventura Nirvana. Il primo vero concerto si tiene
con il nome di Skid Row, nel 1987, quando Kurt ha 20 anni; il nome muterà più
volte come del resto la figura del batterista, che in quella fase è Aaron
Burckhard. Uno dei concerti successivi viene registrato e dalla scaletta si
deduce che buona parte delle composizioni del futuro primo disco, “Bleach”, è
già nella testa di Cobain. Nel 1988, con il nome di Ted Ed Fred e Dale Crover
alla batteria, il gruppo registra il primo provino in studio, al Reciprocal
Recording Studios. Jack Endino, il proprietario, ne rimane favorevolmente
colpito a fa ascoltare il demo a Johnatan Poneman, uno dei fondatori della Sub
Pop. Attorno al mese di giugno Cobain e Novoselic decidono in via definitiva
per il nome Nirvana (“per il dizionario Webster significa libertà dal dolore,
dalle sofferenze del mondo esterno. E’ quanto c’è di più vicino alla mia
definizione di punk rock”, KC), si assestano con la scelta del batterista Chad
Channing e finalmente entrano in studio per incidere il primo singolo Love
buzz.
La Sub Pop inaugura con questo 45 giri una nuova serie,
Singles Club, una forma di abbonamento cha dà il diritto all’acquirente di
avere in anteprima tutti singoli dei gruppi chiamati a registrare per la label.
Comincia così a crearsi attorno al trio una certa attenzione, destinata a
crescere grazie anche al successo delle esibizioni dal vivo. Il loro livello
musicale migliora, le canzoni ora valgono abbastanza da poter essere pubblicate
su un album.
Quando esce “Bleach”, nel 1989, i Nirvana sono già una
piccola promessa nel mondo dell’underground americano. Tra giugno e luglio
partono per un tour che tocca circa una ventina di città in tutti gli States,
mentre alcune radio cominciano a programmare i loro brani. L’effetto traino
funziona e nei concerti si registra progressivamente un aumento del pubblico. A
tutti gli effetti, i Nirvana sono ancora e soprattutto una live-band, un gruppo
che funziona in primo luogo sul palcoscenico. Cobain, in omaggio all’estetica
punk, si preoccupa di sfasciare una chitarra alla fine di ogni esibizione, di
solito un modello da poco prezzo appositamente acquistato.
Ad essere chiari, “Bleach” non è un gran disco. E’ quasi un
tipico prodotto di genere, un lavoro che testimonia la contemporanea passione
verso il metal ed il punk: aggressività adolescenziale, suoni sporchi,
monolitismo ritmico, canto urlato. In un momento in cui il cosiddetto crossover
sta producendo cose degne di nota come Red Hot Chili Peppers o i grandi Jane’s
Addiction di Perry Farrell, spostando l’attenzione verso ritmi più vicini alla
musica nera, “Bleach” rappresenta per la scena post punk americana il limite di
un clichè, limite oltre il quale non si può andare senza rintanarsi nella
nicchia di genere. Quello che salva il disco, costituendo il minuscolo innesco
della successiva, enorme deflagrazione, è il piccolo cuore pop, la sensibilità
ancora semi-nascosta verso la Canzone.
“Bleach” avrebbe senza dubbio guadagnato dall’avere un altro
batterista impegnato nelle registrazioni; il drumming di Chad Channing è
monocorde, con quella grancassa che sembra un metronomo e le braccia di piombo
a marcare passaggi in modo sempre uguale, tradizionalmente heavy. Ma non è
certo colpa sua se l’album appare immaturo, interessante solo quando mostra
squarci e slanci fuori dal genere. E se da una parte non va dimenticato che si
tratta di un’opera prima, dall’altra è probabile che la Sub Pop (etichetta
lungimirante ma in ogni caso legata ad un determinato ambiente) non abbia
certamente spinto per uscire dai canoni di un hard punk che nei tardi ’80 è la
musica che regna nel mondo “alternativo” americano.
Sin dall’apertura, Blew, s’intuisce quale può essere
la formula del disco; la voce di Cobain, in realtà davvero bella, è spesso
completamente nuda, apparentemente priva di trattamenti in fase di
registrazione o missaggio (scritto sul retro di copertina: “registrato da Jack
Endino per 600 dollari”), così che a volte il suo cantato è al limite del
grido, rauco e sopra le righe. Le parti di chitarra, tutte di Kurt (viene
accreditato un secondo chitarrista, Jason Everman, che però non ha inciso
nulla), sono riff pesanti e decisi: gli assoli non brillano per originalità,
destinati più che altro a far fibrillare il suono riempiendo lo spazio con
timbri saturi e distorti. Nella sola School si ascolta qualche accordo
più ricco ed armonioso, fuori dallo standard heavy.
About a girl, però, fa drizzare le orecchie; chi l’ha
scritto ha certo di più, nello spirito, della fanciullesca fissazione per il
rock’n’roll: questo brano ha energia ma anche cuore, è tutto fuorché banale e
reca l’inequivocabile marchio della sincerità. Forse è stata la presenza nel
repertorio dei Nirvana di pezzi come About a girl e l’intuizione di un
possibile grande talento, tormentato ma brillante, ad appassionare Kim Gordon e
Thurston Moore, il 50% dei Sonic Youth. Saranno loro a spingere affinchè il
complesso firmi un contratto con una major, tempo dopo.
Intanto i tre sono sempre più impegnati on the road. Un
altro tour negli USA li porta fino ad ottobre, quando s’imbarcano insieme ai
TAD per un avventuroso giro di concerti in Europa. Arrivati in Inghilterra scoprono
di avere già un certo seguito: il nascente fenomeno del grunge, con il concorso
di un singolo dei Mudhoney ben accolto nelle classifiche alternative inglesi, Superfuzz
Bigmuff, ha fatto loro da apripista. La rivista Melody Maker, proprio
mentre “Bleach” sta per essere pubblicato in Gran Bretagna, scrive di loro:
“Nessun artificio da rockstar, nessuna prospettiva intellettuale, nessun
progetto per la dominazione del mondo. Stiamo parlando di ragazzi che vengono
dalle campagne dello stato di Washington, che vogliono fare del rock, che se
non stessero facendo questo sarebbero a lavorare come commessi di supermarket,
o come taglialegna, o come meccanici”.
La tournèe europea è massacrante; decine di date un po’
dappertutto (Svizzera, Germania, Italia), gli spostamenti effettuati con un
piccolo furgone, le condizioni generali degli spettacoli ed i problemi tecnici
fanno sì che Cobain cominci ad accorgersi di quanto pesi mantenere il ruolo che
poco alla volta si è ritagliato. Lui, che dichiarerà qualche anno dopo “agli
inizi volevo solo fare il chitarrista ritmico, nascosto in secondo piano, solo
per suonare”, è l’epicentro di ogni esibizione, quello che grida e pesta come
un dannato sulle corde, che dà il via al rito distruttivo del finale con le
chitarre sbriciolate e feedback e ronzii che continuano ad echeggiare nell’aria
anche quando gli strumenti ormai tacciono.
Che sia espressione d’insoddisfazione o di estraneità a
tutto, è comunque probabile che il rituale poco c’entri con il semplice
autocompiacimento. Cobain comincia già a dare segni d’insofferenza. L’ulcera
che lo perseguita fin dall’adolescenza si è risvegliata e gli procura dolori
terribili, che sostiene di poter lenire in certi momenti solo con l’eroina:
vero o falso che sia, il ricorso agli stupefacenti sarà uno dei principali
motivi di scandalo e contrasto con il sistema dei mass media.
Quello che a Roma abbandona il palco durante il concerto, si
arrampica su una torre di casse acustiche e vaga come un fantasma per la sala,
è un uomo vicino al limite di rottura: stanchezza fisica e stress psicologici
stanno producendo effetti devastanti in un carattere tutto sommato fragile.
Vivere facendo il musicista rock con quell’intensità e quel trasporto provoca
su di lui una pressione che si rivela insostenibile, e che è destinata e
crescere mostruosamente.
Continua...
giovedì 7 febbraio 2013
Kurt Cobain - Parte 1a
Annunciato il ritorno dei D.U.M.B sulle scene, è doveroso ricominciare la pubblicazione delle monografie a partire da quella dedicata a Kurt Cobain.
Kurt Cobain
Una delle cose più difficili, parlando di Cobain, è separare le scorie dal resto. I fatti personali da quelli musicali. Facile non è mai, quando si tratta di personaggi che rendono nitida la differenza tra vivere la musica e vivere di musica. Ma in questo caso, beh, qui abbiamo un’autentica icona del rock’n’roll, poeta maledetto, idolo delle folle e manna per i mass-media. Si può parlare dei Nirvana senza incappare nei detriti scandalistici della sua vita intima? Si può parlare della vita di Kurt Cobain e di come si sia incrociata con la musica, senza il fastidio della morbosità?
Kurt Cobain
Monografia - Parte 1a
Una delle cose più difficili, parlando di Cobain, è separare le scorie dal resto. I fatti personali da quelli musicali. Facile non è mai, quando si tratta di personaggi che rendono nitida la differenza tra vivere la musica e vivere di musica. Ma in questo caso, beh, qui abbiamo un’autentica icona del rock’n’roll, poeta maledetto, idolo delle folle e manna per i mass-media. Si può parlare dei Nirvana senza incappare nei detriti scandalistici della sua vita intima? Si può parlare della vita di Kurt Cobain e di come si sia incrociata con la musica, senza il fastidio della morbosità?
Mi sono trovato a pensare al finale preannunciato, quando
vennero tratte conclusioni indiscutibili a partire dal fatto che il terzo
disco, “In utero”, avrebbe dovuto uscire con il titolo “I hate myself and I
want to die”. Mi sono trovato anche a pensare che lo stesso Cobain aveva
dichiarato trattarsi di scherzo, autoironia, “vengo visto come uno
schizofrenico che ad ogni momento vuole uccidersi, pensavo fosse un titolo
divertente”. Già.
Così, in realtà, avevano ragione quelli che scuotevano la
testa? Quelli che avevano classificato l’uomo Cobain nel settore
vivi-veloce-e-muori-giovane?
La sua musica conteneva (contiene, intatti) un’energia
parossistica, un furore potenzialmente autodistruttivo come pochi se ne sentono
o vedono; è contemporaneamente oppressiva e liberatoria, sentimentale e
lancinante, a volte “pericolosa”. Non bastava questo? Sapere da Courtney Love,
widow-superstar, che “tutto quello che voleva Kurt era essere scopato” ci fa
capire di più? Non era sufficiente ascoltare un paio di canzoni per intuire il
bisogno d’amore che esprimeva attraverso la musica? “Odia, odia i tuoi nemici /
Salva, salva i tuoi amici”, Radio Friendly Unit Shifter.
Costa occidentale USA, stato di Washington, Seattle. Nello
scenario di uno splendido teatro naturale, in una zona dall’aspetto in gran
parte rurale, sorge uno dei centri urbani più futuribili degli Stati Uniti.
Seattle, città della Microsoft, è portata ad esempio per l’elevata qualità
della vita. Ha dato i natali a Jimi Hendrix e fornito il terreno per la
fioritura del nuovo rock, quel grunge che alla fine degli anni ’80 è passato
dall’arrabbiata immagine alternativa allo status di protagonista del mercato
discografico.
Se pensiamo per un attimo al jazz, per fare un esempio, o al
blues, alla musica afroamericana, immaginiamo che la presenza di comunità nere
in una data area geografica ed i contatti con la locale cultura bianca, nonché
le ragioni storiche che determinano la qualità di quei contatti, spiegano in
parte le diversità tra il Blues di Chicago e quello di Memphis, tra lo stile di
New Orleans e quello delle metropoli del
nord. Ma per quanto riguarda il rock non è così.
E’ un’antropologia a volte più sfumata e nebulosa.
Se succedeva qualcosa, a Seattle, per portare alla ribalta
nel giro di pochissimo tempo futuri primattori del rock come Soundgarden, Pearl
Jam, Nirvana, era che i giovanissimi musicisti stavano cercando (influenzandosi
molto a vicenda) un’idea di musica alternativa, figlia legittima del ribellismo
punk e libera dagli obblighi dell’estetismo cresciuto in modo abnorme e malato
negli anni ’80, ma in un certo qual modo sensibile al valore della melodia e
della canzone pop.
Era probabilmente una cosa simile a ciò che cercavano
contemporaneamente altri giovani rockers, ma alcuni fattori importanti
(l’attenzione dei media, la presenza di un’etichetta autenticamente
indipendente some la Sub Pop, la caparbietà degli stessi protagonisti) hanno
fatto sì che Seattle diventasse un luogo privilegiato per quel dirompente
fenomeno, fino all’esplosione di “Nevermind”.
Continua...
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mercoledì 30 gennaio 2013
lunedì 7 gennaio 2013
D.U.M.B, ritornano
Nel 2009, in occasione dei 40 anni dal Festival di Woodstock, viene chiesto a me e ad alcuni amici di partecipare ad una rievocazione del festival con un repertorio moderno: in pratica, un omaggio al disco dei Nirvana della serie MTV- Unplugged.
Io, Antonio Salvino, Mauro De Pietri e Emiliano Mori proviamo e ci prepariamo per 40 minuti di concerto, quel che ci era richiesto per l’occasione. L’evento poi in realtà non si potrà tenere, ma la voglia di misurarsi dal vivo con la dimensione acustica e con quel repertorio rimane.
Così prepariamo anche una seconda parte, mescolando classici del passato e canzoni recenti, con arrangiamenti creati ad hoc. Il suono è più robusto di quel che si potrebbe pensare per una dimensione acustica, grazie anche al fatto che la scelta di Mauro di usare il basso elettrico rende più corposa la ritmica permettendo alla batteria di Emiliano qualche libertà in più.
Fino al 2011 suoniamo in zona, sempre in piccoli locali, decisamente più rilassanti.
Poi sciogliamo la compagnia, causa l’accavallarsi di altri impegni.
Poi sciogliamo la compagnia, causa l’accavallarsi di altri impegni.
Ora qualcuno ha chiesto di riascoltare i D.U.M.B. (Don’t Use My Brain?) almeno per un paio di concerti e noi, visto che comunque dobbiamo provare, abbiamo pensato che a maggior ragione valga la pena farlo per esibirsi qualche data di più. Quindi pensavamo di programmare almeno 4-5 esibizioni, e poi vedere come va.
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