Kurt Cobain
Monografia - Parte 3a
“Il rock – Star system e società dei consumi” è un libro del
neozelandese David Buxton, uscito in Italia nel 1987. Contiene una delle più
precise e spietate analisi del rock’n’roll come creatore di profitti, del suo
rapporto con l’industria discografica. Uno dei capitoli più interessanti
riguarda il cosiddetto star-system: “La qualità dell’essere una star diviene
dunque una sorta di macchina che trasforma il lavoro del musicista in un
prodotto di massa... In quanto star egli è proprietà, per un determinato
periodo stabilito dal contratto, di una casa discografica”.
Citando Mick Farren, cantante dei Deviants, giornalista e
ideologo della controcultura britannica, Buxton riporta: “Siamo stati obbligati
a pensare alla nostra stessa cultura in termini commerciali... Ci
ricondizionano a pensare come degli affaristi”.
Se c’è stato un gruppo emergente libero di agire anche sotto
contratto con una major discografica, questo risponde al nome di Nirvana. Per
“Nevermind” e “In utero” hanno avuto a disposizione i produttori che ritenevano
più opportuni, ed un potere decisionale che pochi possono esercitare.
Ma il contesto, il mondo nel quale si muovono, le
dissennatezze con cui fanno i conti quando appoggiano gli strumenti, sono le
stesse. Volenti o nolenti la “qualità dell’essere star” determina una serie di
aspettative. Quando Kurt dichiara “Io sono il portavoce di me stesso e il caso
vuole che ci sia un mucchio di gente attenta a quello che dico e a volte è
spaventoso, perchè sono confuso come loro”, mostra d’aver afferrato il
concetto. Anche se apparentemente in contraddizione con sé stesso, affermando
poi “Non c’è più ribellione nel rock: ecco perché spero che l’underground possa
influenzare le correnti dominanti e dare una scrollata ai ragazzi. Chissà,
magari potremo cambiare la vita di qualcuno, impedendogli di diventare un
viscido avvocato o un saldatore”.
E come puoi immaginare di farlo senza che la gente sia
attenta a quello che dici? Senza accorgerti che lì sotto al palco, ragazzi e
ragazze s’aspettano qualcosa? E’ naturale che sia così, è quasi “giusto”.
Cobain (come scriveva Melody Maker) non ha niente di diverso negli
atteggiamenti, nell’abbigliamento e nel linguaggio dai giovani che ballano ai
suoi concerti: sarebbe strano se non scattasse un meccanismo d’identificazione.
Al tempo stesso, quando questo genera tutti gli effetti collaterali del caso,
appare chiaro che non esiste la possibilità di sottrarsi a piacimento, di
funzionare ad intermittenza.
Kurt Cobain ha un atteggiamento ondivago: forse pensa di
poter comunicare ai propri coetanei un sogno di vittoria sulla frustrazione,
sull’apatia e la perdita di speranza che vengono attribuite alla sua
generazione. Contemporaneamente si rende conto che cercare di farlo attraverso
la musica è un processo non indolore, perché richiede di diventare insieme sacerdote
ed agnello sacrificale. Ed è questo che egli non accetta, pur avendo compreso
perfettamente il processo: dopo essere stato scioccamente, artificiosamente trasformato
in un simbolo generazionale, un’icona, non ammette di essere spogliato fino
all’intimità e poi adagiato sull’altare del culto di massa.
La sua è una titubanza sincera, normale, che non interessa
per niente all’indotto del rock’n’roll: riviste, libri, interviste, sedute
fotografiche, Mtv video awards, poster, magliette, cartoline, spille.
La normalità si vende molto, molto male.
“Bleach” piazza più di 30.000 copie, risultato ragguardevole
per essere il prodotto di una “indie”; ma proprio per il suo essere un prodotto
indipendente si trova escluso dai grandi canali distributivi. Si fatica a
trovarlo nei negozi. Solo una grossa compagnia discografica può garantire
sicurezza, da questo punto di vista. Anche se i Nirvana per il momento non
ambiscono a molto di più che diventare un gruppo di nicchia, senza la pretesa
di suonare davanti a platee sterminate, sentono che si potrebbe fare di meglio
per la loro promozione. Durante il 1990 hanno contatti con la Geffen records,
famosa soprattutto per essere l’etichetta dei Guns’n Roses e per aver accolto
nel proprio catalogo la difficile musica dei Sonic Youth; sono loro gli
artefici principali dell’accordo che i Nirvana sottoscriveranno l’anno dopo con
la major.
Nel frattempo, tra tournèe e qualche videoclip, Channing se
ne va. Ad ottobre arriva il partner ideale per Cobain e Novoselic: Dave Grohl,
“il batterista dei nostri sogni”.
Nel ’91 la compagnia di David Geffen firma il contratto con
i Nirvana. Per l’incisione del secondo disco i tre insistono nel mantenere come
produttore Butch Vig, lo stesso che l’anno prima li ha assistiti nella
preparazione di un EP. Con lui si sono trovati bene, e dopo alcune resistenze
da parte dei dirigenti della Geffen s’inizia a preparare il materiale per le
nuove registrazioni. In settembre, mentre la band è impegnata in una serie di
concerti, esce quello che è il disco destinato a segnare profondamente la
cronaca del rock nella prima metà degli anni ’90: “Nevermind”.
“Metà delle canzoni di Nevermind sono state scritte ai tempi
di Bleach, ma senza essere inserite nell’album. Non è che adesso ci sia un
cambiamento, siamo sempre stati fans della pop music”, KC.
“Nevermind” è una magnifica raccolta di canzoni, un disco
emozionante, inquietante, potente e lacerante; è un’opera che produce un
immediato senso d’identificazione, che svela la profonda sincerità della musica
dei Nirvana. Uno di quei dischi, rarissimi, capaci d’accompagnare per un lungo
tratto l’esistenza di chi ha la gioia di scoprirli ed amarli: capace
d’ascendere in brevissimo tempo all’Olimpo dei classici e d’influenzare
l’intera scena degli anni successivi.
Il suono del gruppo è notevolmente cambiato. In primo luogo
grazie all’inserimento di Dave Grohl, che è batterista migliore di Channing;
anche se la prima caratteristica è sempre la potenza, il modo di suonare di
Grohl è più ricco di sfumature e dinamico, meno ossessivo e metronomico. In
secondo luogo, la presenza di Butch Vig agisce da catalizzatore per tutte le
qualità che nella musica di “Bleach” erano rimaste latenti. Pare così una di
quelle straordinarie miscele ottenute grazie all’incontro tra musicisti con
idee e talenti fuori dall’ordinario ed un produttore illuminato, intuitivo,
come i lavori curati da Phil Spector, Joe Boyd o Jerry Wexler nel passato o, ai
giorni nostri, Brian Eno e Daniel Lanois.
Il risultato è un sound energico, viscerale, una specie di
tempesta elettrica sotto controllo, dove la voce appassionata di Cobain ha
finalmente un posto di primo piano; se confrontato con l’immagine esangue e la
musicalità anemica tipicamente di successo negli anni ’80, il suono di
“Nevermind” è un ciclone che spazza via baracche di compensato e lamiera.
Devastante.
Smells like teen spirit, singolo-ariete, contiene
molte delle caratteristiche che concorrono a fare del disco quello che è:
energia, potenza, melodia accattivante e una sconcertante, invidiabile
semplicità armonica. L’alternarsi di dinamiche contrapposte, forte/piano,
pieno/vuoto, con riff chitarristici e bei passaggi di batteria a delimitarne i
confini, diventerà uno dei loro marchi di fabbrica.
C’è una violenta bellezza, in questa musica. C’è persino una
parvenza di gioia: verrà anche dalla X generation e in parte dal punk, ma le
melodie di Come as you are, Lithium, On a plain sono
splendide. Mentre si stagliano su un accompagnamento fragoroso, dall’andamento
spezzato ed a volte così semplice da trovar posto in semplici bicordi, le
strofe delle canzoni di Cobain colpiscono per la loro purezza. Quello che in
“In utero” ri/diventerà tenebra e nichilismo, qui è furia musicale, cantabilità
spinta all’estremo.
La musica dei Nirvana nasce nel nome di un certo
antagonismo, ben lontana dall’idea di essere compiacente: ma se c’è una cosa
apprezzabile sopra ogni altra in “Nevermind” è proprio il felice matrimonio tra
pop-song e rock duro. In questa chiave, quello che in poco tempo venderà 7
milioni di copie è un disco che rappresenta davvero una novità. E funziona sia
considerandolo come antologia di brani sia, secondo il desiderio di Kurt, come
un album con un’accurata logica nella sequenza delle canzoni.
I Nirvana non hanno dimenticato l’hard punk da cui
provengono, ma sono capaci di smorzare i toni, di lasciare riposare i sensi per
qualche istante per poi assalire di nuovo con un settimo cavalleggeri di
decibel; anche dove l’aggressività è lanciata al massimo rimane un salvagente
melodico cui aggrapparsi o addirittura, come in Breed o Territorial
pissing, frammenti di un canto che sembra filastrocca, una merry melody
deformata e torta fino ad assumere le sembianze di una cantilena metallica.
L’immagine di Kurt Cobain esce da questi solchi vestita di grande magnetismo e
regala emozioni dal primo all’ultimo minuto; la sua è una bella voce, emotiva,
spesso tesa allo spasimo.
Polly e Something in the way, piccole gemme acustiche,
provano quanto sia capace d’espressività come cantante e quanto possano reggere
da sole, senza l’aiuto del fragore elettrico, le sue composizioni: sono Canzoni
a tutti gli effetti.
Rispetto a “Bleach” le parti di chitarra sono infinitamente
più riuscite. In “Nevermind” si può apprezzare il lavoro sui suoni ottenuti
grazie a normali apparecchiature analogiche, in una fase in cui la ricerca di
novità o miglioramenti timbrici attraverso sistemi digitali è già la norma. E
l’acustica usata per Polly pare sia una Stella da 20 dollari...
Gli assoli sono frequentemente la riproposizione della linea
melodica principale espansa da belle sonorità irruenti, ma almeno un paio di
essi (soprattutto In bloom) mettono in mostra una strana vena
d’astrattismo, una specie di feedback quasi cacofonico lontano mille miglia
dalle martellate del punk.
Ai Nirvana riesce ciò che non è riuscito a bands come Sonic
Youth, Husker Du e Dinosaur Jr.: rumore e lirismo si sono uniti da tempo nella
musica di questi gruppi, ognuno proveniente da un diverso orizzonte. I Sonic
Youth con il loro approccio intellettuale tipico dell’ambiente newyorkese, da
noise-band acculturata; gli Husker Du con il loro passato di punk rabbioso,
sfociato in un magnifico repertorio composto di canzoni epiche, dal respiro
potente ed immortale; ed infine i Dinosaur Jr., ipnotici, quasi allucinati, più
ispirati ai Led Zeppelin ed al sound degli anni ’70.
Nessuno di loro è però riuscito, nemmeno lontanamente, a
giungere ai risultati dei Nirvana. Anche con musica eccellente, e con alcuni
dischi imperdibili per capire il passaggio da un decennio all’altro, il loro
impatto sull’immaginario, sui processi identificativi, sul mercato, non è
certamente confrontabile con quello di “Nevermind”. Che è il disco giusto al momento
giusto: porta il rock sulla vetta assoluta delle classifiche spodestando
“Dangerous” di Michael Jackson, apre le porte a coloro che il rock non l’hanno
mai ascoltato e “vissuto”, crea un codice comune a buona parte dei giovani che
consumano musica. Il suo uscire dai limiti che solitamente circondano la musica
di genere assume connotazioni sociologiche; per un certo lasso di tempo sembra
che ascoltando i Nirvana s’ascolti contemporaneamente il tentativo di
esprimersi di milioni di ragazzi.
Non è un messaggio né una comunicazione ideologica. E’ più
l’esplicitarsi di una sensazione di disorientamento, una confusione espressa a
gran voce e senza timori, un modo di dire “ci sono anch’io, e faccio un sacco
di casino”: questo sentimento identitario sarà uno dei fattori che spingerà ai
massimi livelli lo sfruttamento commerciale del gruppo, nonchè la baraonda
mediatica attorno ad esso.
“E’ stato come andare a letto una sera mentre andava tutto
bene, ma risvegliarsi l’indomani mattina e sentir dire al giornale radio che
ero un nazista ammazzabambini”, KC.
“Potrò avere 43 anni ed essere un insegnante d’inglese, e
resterei sempre il batterista dei Nirvana”, D. Grohl.
Il successo di “Nevermind” comporta una serie di
conseguenze. La più concreta è la reazione del mercato discografico. Nel giro
di un anno, tra i milioni di copie vendute e l’effetto di trascinamento su
altri musicisti ed altri cataloghi, l’industria di settore viene letteralmente
risollevata dal suo precedente stato di torpore; grunge, nuovo rock, camicie a
scacchi, jeans strappati: sintetizzando, parole d’ordine e simboli che si
traducono ad una velocità impressionante in dati di vendite e grafici. Cobain,
la stella (su di lui si concentra la quasi totalità dell’attenzione pubblica),
diventa l’uomo del giorno. Se da un lato può reputare dignitoso il rapporto con
l’etichetta, la Geffen, dall’altro diventare per amore o per forza un monumento
vivente è cosa difficile.
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