domenica 10 febbraio 2013

Kurt Cobain - Parte 3a

Kurt Cobain

Monografia - Parte 3a


“Il rock – Star system e società dei consumi” è un libro del neozelandese David Buxton, uscito in Italia nel 1987. Contiene una delle più precise e spietate analisi del rock’n’roll come creatore di profitti, del suo rapporto con l’industria discografica. Uno dei capitoli più interessanti riguarda il cosiddetto star-system: “La qualità dell’essere una star diviene dunque una sorta di macchina che trasforma il lavoro del musicista in un prodotto di massa... In quanto star egli è proprietà, per un determinato periodo stabilito dal contratto, di una casa discografica”.
Citando Mick Farren, cantante dei Deviants, giornalista e ideologo della controcultura britannica, Buxton riporta: “Siamo stati obbligati a pensare alla nostra stessa cultura in termini commerciali... Ci ricondizionano a pensare come degli affaristi”.
Se c’è stato un gruppo emergente libero di agire anche sotto contratto con una major discografica, questo risponde al nome di Nirvana. Per “Nevermind” e “In utero” hanno avuto a disposizione i produttori che ritenevano più opportuni, ed un potere decisionale che pochi possono esercitare.
Ma il contesto, il mondo nel quale si muovono, le dissennatezze con cui fanno i conti quando appoggiano gli strumenti, sono le stesse. Volenti o nolenti la “qualità dell’essere star” determina una serie di aspettative. Quando Kurt dichiara “Io sono il portavoce di me stesso e il caso vuole che ci sia un mucchio di gente attenta a quello che dico e a volte è spaventoso, perchè sono confuso come loro”, mostra d’aver afferrato il concetto. Anche se apparentemente in contraddizione con sé stesso, affermando poi “Non c’è più ribellione nel rock: ecco perché spero che l’underground possa influenzare le correnti dominanti e dare una scrollata ai ragazzi. Chissà, magari potremo cambiare la vita di qualcuno, impedendogli di diventare un viscido avvocato o un saldatore”.
E come puoi immaginare di farlo senza che la gente sia attenta a quello che dici? Senza accorgerti che lì sotto al palco, ragazzi e ragazze s’aspettano qualcosa? E’ naturale che sia così, è quasi “giusto”. Cobain (come scriveva Melody Maker) non ha niente di diverso negli atteggiamenti, nell’abbigliamento e nel linguaggio dai giovani che ballano ai suoi concerti: sarebbe strano se non scattasse un meccanismo d’identificazione. Al tempo stesso, quando questo genera tutti gli effetti collaterali del caso, appare chiaro che non esiste la possibilità di sottrarsi a piacimento, di funzionare ad intermittenza.
Kurt Cobain ha un atteggiamento ondivago: forse pensa di poter comunicare ai propri coetanei un sogno di vittoria sulla frustrazione, sull’apatia e la perdita di speranza che vengono attribuite alla sua generazione. Contemporaneamente si rende conto che cercare di farlo attraverso la musica è un processo non indolore, perché richiede di diventare insieme sacerdote ed agnello sacrificale. Ed è questo che egli non accetta, pur avendo compreso perfettamente il processo: dopo essere stato scioccamente, artificiosamente trasformato in un simbolo generazionale, un’icona, non ammette di essere spogliato fino all’intimità e poi adagiato sull’altare del culto di massa.
La sua è una titubanza sincera, normale, che non interessa per niente all’indotto del rock’n’roll: riviste, libri, interviste, sedute fotografiche, Mtv video awards, poster, magliette, cartoline, spille.
La normalità si vende molto, molto male.

“Bleach” piazza più di 30.000 copie, risultato ragguardevole per essere il prodotto di una “indie”; ma proprio per il suo essere un prodotto indipendente si trova escluso dai grandi canali distributivi. Si fatica a trovarlo nei negozi. Solo una grossa compagnia discografica può garantire sicurezza, da questo punto di vista. Anche se i Nirvana per il momento non ambiscono a molto di più che diventare un gruppo di nicchia, senza la pretesa di suonare davanti a platee sterminate, sentono che si potrebbe fare di meglio per la loro promozione. Durante il 1990 hanno contatti con la Geffen records, famosa soprattutto per essere l’etichetta dei Guns’n Roses e per aver accolto nel proprio catalogo la difficile musica dei Sonic Youth; sono loro gli artefici principali dell’accordo che i Nirvana sottoscriveranno l’anno dopo con la major.
Nel frattempo, tra tournèe e qualche videoclip, Channing se ne va. Ad ottobre arriva il partner ideale per Cobain e Novoselic: Dave Grohl, “il batterista dei nostri sogni”.
Nel ’91 la compagnia di David Geffen firma il contratto con i Nirvana. Per l’incisione del secondo disco i tre insistono nel mantenere come produttore Butch Vig, lo stesso che l’anno prima li ha assistiti nella preparazione di un EP. Con lui si sono trovati bene, e dopo alcune resistenze da parte dei dirigenti della Geffen s’inizia a preparare il materiale per le nuove registrazioni. In settembre, mentre la band è impegnata in una serie di concerti, esce quello che è il disco destinato a segnare profondamente la cronaca del rock nella prima metà degli anni ’90: “Nevermind”.

“Metà delle canzoni di Nevermind sono state scritte ai tempi di Bleach, ma senza essere inserite nell’album. Non è che adesso ci sia un cambiamento, siamo sempre stati fans della pop music”, KC.
“Nevermind” è una magnifica raccolta di canzoni, un disco emozionante, inquietante, potente e lacerante; è un’opera che produce un immediato senso d’identificazione, che svela la profonda sincerità della musica dei Nirvana. Uno di quei dischi, rarissimi, capaci d’accompagnare per un lungo tratto l’esistenza di chi ha la gioia di scoprirli ed amarli: capace d’ascendere in brevissimo tempo all’Olimpo dei classici e d’influenzare l’intera scena degli anni successivi.
Il suono del gruppo è notevolmente cambiato. In primo luogo grazie all’inserimento di Dave Grohl, che è batterista migliore di Channing; anche se la prima caratteristica è sempre la potenza, il modo di suonare di Grohl è più ricco di sfumature e dinamico, meno ossessivo e metronomico. In secondo luogo, la presenza di Butch Vig agisce da catalizzatore per tutte le qualità che nella musica di “Bleach” erano rimaste latenti. Pare così una di quelle straordinarie miscele ottenute grazie all’incontro tra musicisti con idee e talenti fuori dall’ordinario ed un produttore illuminato, intuitivo, come i lavori curati da Phil Spector, Joe Boyd o Jerry Wexler nel passato o, ai giorni nostri, Brian Eno e Daniel Lanois.
Il risultato è un sound energico, viscerale, una specie di tempesta elettrica sotto controllo, dove la voce appassionata di Cobain ha finalmente un posto di primo piano; se confrontato con l’immagine esangue e la musicalità anemica tipicamente di successo negli anni ’80, il suono di “Nevermind” è un ciclone che spazza via baracche di compensato e lamiera. Devastante.
Smells like teen spirit, singolo-ariete, contiene molte delle caratteristiche che concorrono a fare del disco quello che è: energia, potenza, melodia accattivante e una sconcertante, invidiabile semplicità armonica. L’alternarsi di dinamiche contrapposte, forte/piano, pieno/vuoto, con riff chitarristici e bei passaggi di batteria a delimitarne i confini, diventerà uno dei loro marchi di fabbrica.
C’è una violenta bellezza, in questa musica. C’è persino una parvenza di gioia: verrà anche dalla X generation e in parte dal punk, ma le melodie di Come as you are, Lithium, On a plain sono splendide. Mentre si stagliano su un accompagnamento fragoroso, dall’andamento spezzato ed a volte così semplice da trovar posto in semplici bicordi, le strofe delle canzoni di Cobain colpiscono per la loro purezza. Quello che in “In utero” ri/diventerà tenebra e nichilismo, qui è furia musicale, cantabilità spinta all’estremo.
La musica dei Nirvana nasce nel nome di un certo antagonismo, ben lontana dall’idea di essere compiacente: ma se c’è una cosa apprezzabile sopra ogni altra in “Nevermind” è proprio il felice matrimonio tra pop-song e rock duro. In questa chiave, quello che in poco tempo venderà 7 milioni di copie è un disco che rappresenta davvero una novità. E funziona sia considerandolo come antologia di brani sia, secondo il desiderio di Kurt, come un album con un’accurata logica nella sequenza delle canzoni.
I Nirvana non hanno dimenticato l’hard punk da cui provengono, ma sono capaci di smorzare i toni, di lasciare riposare i sensi per qualche istante per poi assalire di nuovo con un settimo cavalleggeri di decibel; anche dove l’aggressività è lanciata al massimo rimane un salvagente melodico cui aggrapparsi o addirittura, come in Breed o Territorial pissing, frammenti di un canto che sembra filastrocca, una merry melody deformata e torta fino ad assumere le sembianze di una cantilena metallica. L’immagine di Kurt Cobain esce da questi solchi vestita di grande magnetismo e regala emozioni dal primo all’ultimo minuto; la sua è una bella voce, emotiva, spesso tesa allo spasimo.
Polly e Something in the way, piccole gemme acustiche, provano quanto sia capace d’espressività come cantante e quanto possano reggere da sole, senza l’aiuto del fragore elettrico, le sue composizioni: sono Canzoni a tutti gli effetti.
Rispetto a “Bleach” le parti di chitarra sono infinitamente più riuscite. In “Nevermind” si può apprezzare il lavoro sui suoni ottenuti grazie a normali apparecchiature analogiche, in una fase in cui la ricerca di novità o miglioramenti timbrici attraverso sistemi digitali è già la norma. E l’acustica usata per Polly pare sia una Stella da 20 dollari...
Gli assoli sono frequentemente la riproposizione della linea melodica principale espansa da belle sonorità irruenti, ma almeno un paio di essi (soprattutto In bloom) mettono in mostra una strana vena d’astrattismo, una specie di feedback quasi cacofonico lontano mille miglia dalle martellate del punk.

Ai Nirvana riesce ciò che non è riuscito a bands come Sonic Youth, Husker Du e Dinosaur Jr.: rumore e lirismo si sono uniti da tempo nella musica di questi gruppi, ognuno proveniente da un diverso orizzonte. I Sonic Youth con il loro approccio intellettuale tipico dell’ambiente newyorkese, da noise-band acculturata; gli Husker Du con il loro passato di punk rabbioso, sfociato in un magnifico repertorio composto di canzoni epiche, dal respiro potente ed immortale; ed infine i Dinosaur Jr., ipnotici, quasi allucinati, più ispirati ai Led Zeppelin ed al sound degli anni ’70.
Nessuno di loro è però riuscito, nemmeno lontanamente, a giungere ai risultati dei Nirvana. Anche con musica eccellente, e con alcuni dischi imperdibili per capire il passaggio da un decennio all’altro, il loro impatto sull’immaginario, sui processi identificativi, sul mercato, non è certamente confrontabile con quello di “Nevermind”. Che è il disco giusto al momento giusto: porta il rock sulla vetta assoluta delle classifiche spodestando “Dangerous” di Michael Jackson, apre le porte a coloro che il rock non l’hanno mai ascoltato e “vissuto”, crea un codice comune a buona parte dei giovani che consumano musica. Il suo uscire dai limiti che solitamente circondano la musica di genere assume connotazioni sociologiche; per un certo lasso di tempo sembra che ascoltando i Nirvana s’ascolti contemporaneamente il tentativo di esprimersi di milioni di ragazzi.
Non è un messaggio né una comunicazione ideologica. E’ più l’esplicitarsi di una sensazione di disorientamento, una confusione espressa a gran voce e senza timori, un modo di dire “ci sono anch’io, e faccio un sacco di casino”: questo sentimento identitario sarà uno dei fattori che spingerà ai massimi livelli lo sfruttamento commerciale del gruppo, nonchè la baraonda mediatica attorno ad esso.
“E’ stato come andare a letto una sera mentre andava tutto bene, ma risvegliarsi l’indomani mattina e sentir dire al giornale radio che ero un nazista ammazzabambini”, KC.
“Potrò avere 43 anni ed essere un insegnante d’inglese, e resterei sempre il batterista dei Nirvana”, D. Grohl.
Il successo di “Nevermind” comporta una serie di conseguenze. La più concreta è la reazione del mercato discografico. Nel giro di un anno, tra i milioni di copie vendute e l’effetto di trascinamento su altri musicisti ed altri cataloghi, l’industria di settore viene letteralmente risollevata dal suo precedente stato di torpore; grunge, nuovo rock, camicie a scacchi, jeans strappati: sintetizzando, parole d’ordine e simboli che si traducono ad una velocità impressionante in dati di vendite e grafici. Cobain, la stella (su di lui si concentra la quasi totalità dell’attenzione pubblica), diventa l’uomo del giorno. Se da un lato può reputare dignitoso il rapporto con l’etichetta, la Geffen, dall’altro diventare per amore o per forza un monumento vivente è cosa difficile.

Nessun commento:

Posta un commento