martedì 25 dicembre 2012

Auguri!

Buon Natale!

Grazie a tutti coloro che hanno partecipato alla serata The Unbeat Generation il 23 Dicembre!
A breve fotografie e video dell'evento!


domenica 16 dicembre 2012

Tim Buckley - Parte 4a (conclusione)


Tim Buckley
Monografia - Parte 4a (conclusione)

Per la terza volta nel giro di un anno esce un disco a suo nome. La frenesia con cui elabora le sue idee ha qualcosa di mistico, una specie di devozione assoluta: Lilian Roxon, giornalista, riconosce che “non c’è ancora un nome per i luoghi dove può recarsi la sua voce”.
“Starsailor” è una di quelle opere che portano un marchio. Che esercitano un fascino od un’influenza particolari, immerse in un aura densa dei segni del proprio tempo ma contemporaneamente senza età, quasi come se chi le ha composte avesse compiuto un’impresa di natura magica al di là di ogni progetto o pianificazione razionale.
“Starsailor” è anche di più: opus magnum di Buckley, questo disco è il culmine di una ricerca che ha pochissimi eguali nella giovane storia di questa musica. Avanguardia, jazz, rock, canzone d’autore, sperimentazione estrema: Tim ha da tempo cuore, cervello e mani sulla stessa linea. Che sia lo chansonnier di Moulin rouge o che ululi sul finale di Healing festival, il risultato è lo stesso: il suo canto è perfetto e la musica gli aderisce come una seconda pelle. Ma “Starsailor” è anche un disco non facile, ed un suicidio commerciale.
Buckley è accompagnato da Underwood, da John Balkin,  Buzz e Bunk Gardner (tre Zappa – men, basso, tromba e sassofono) e da Maury Baker alla batteria. Anche se il gruppo è poco più di un piccolo combo, in qualche passaggio l’accavallarsi di tastiere, fiati, chitarre e tutto il resto genera un magma sonoro bollente, pulsante, che lascia sfuggire qua e là strappi e crescendi collettivi. La voce di Tim esce dalla lava, l’accarezza, si libra in alto rimanendovi per un’eternità, poi si tuffa, ripiomba nel liquido fumante e nuota insieme agli altri prima di lanciarsi di nuovo in verticale.
La sua performance lascia senza parole: difficile sentire cose simili da qualsiasi parte ci si rivolga.
Non tanto per il “semplice” virtuosismo, quanto per la vivida possibilità d’immaginare questo ragazzo di 23 anni come una nuda voce, una vibrazione pura, un’esistenza che si rivela in pieno quando può farsi canto e piegare ogni nota a proprio piacimento: come sempre c’è identificazione totale tra vita e musica, e con un pizzico d’ironia questo lavoro è anche quello che più ricorda le sonorità del rock.
La Gibson acustica non c’è più, il suono è molto elettrico, teso. Come here woman e Jungle fire hanno struttura simile, che si sviluppa da un apparente caos strumentale fino ad una parte ritmicamente accentuata, con riff decisi e sincopati. I woke up richiama la matrice di “Lorca”, un tappeto sonoro ricco di colori a sostenere il lirismo di una bellissima melodia.
Monterey è un impressionante tour de force vocale: col solo accompagnamento di chitarra e batteria Tim pare strapparsi le corde vocali, pigliando intervalli impossibili e scorrazzando tra falsetto e raucedine da orco con facilità disarmante, la stessa con cui affianca o domina il furioso soffiare dei fiati in Healing festival e Down the borderline.
Moulin rouge (da grande crooner) e Song to the siren (il brano più famoso, voce e chitarra per una ballata da brivido) rallentano il ritmo e portano a quello che potremmo definire scettro e corona, un punto d’arrivo nella ricerca vocale di Buckley: Starsailor, 16 voci sovraincise che s’inseguono, si toccano per poi separarsi di nuovo e riprendere a viaggiare. Voci che ascendono al cielo, che ruotano in cerchio e scompaiono lontano, una impressione di movimento perpetuo, di leggerezza, di annullamento della forza di gravità. Voci che un attimo prima erano materia concreta, grugniti ed urla brutali, che si trasfigurano nell’allegoria eterea di un viaggio tra psiche e spazio esterno: “dietro ai soli io parlo / e le orbite si frantumano”.
 Parte della critica tratta “Starsailor” per quello che è, un capolavoro assoluto (l’allora rivista-guru del libero pensiero musicale, DOWN BEAT, gli assegna le famose cinque stelle, come a dire il meglio del meglio), mentre altri lo bollano come pretenzioso, invitando il cantante a rinverdire il passato da folk singer. Ma in ogni caso solo i giornalisti sono divisi sul giudizio: infatti, il disco si rivela un completo disastro commerciale.
Tim è furioso, amareggiato, frustrato. Le esibizioni dal vivo, spesso completamente improvvisate, si fanno sempre più rare, dato che nessuno vuole promuovere una musica così ostica (per cui ci saranno però le congratulazioni di Frank Zappa, di solito parco di complimenti: “it sounds really good”). Nemmeno un gruppo successivo, formato con Baker, Balkin, Glen Ferris al trombone ed Emmett Chapman (inventore dello stick), incontra maggior fortuna.
Motivo: la quasi totale mancanza d’ingaggi. Buckley tiene qualche concerto lontano da Los Angeles, in solitudine, ma poi tutto finisce lì. I tentativi di portare in giro la propria musica ricevono la medesima risposta: “suona rock’n’roll, ragazzo”.
Underwood racconta che, una volta finiti i soldi, il “ragazzo” si sente rispondere “non puoi mangiarti le cinque stelle di DOWN BEAT. E’ meglio che impari a guidare un camion”.
Non male, per uno che ha ricevuto grandi lodi persino dall’accademico ambiente della musica lirica.
 Saranno due anni terribili, durante i quali Tim proverà un assoluto senso d’impotenza.
Non fa nulla. Non riesce a far nulla. Quando ne ha la possibilità si buca, e basta.
Alla fine qualcosa dentro di lui si spezza. Oppure glielo spezzano. Vuole tornare al suo lavoro, alla sua ragione di vita. Ha bisogno di denaro. Ha bisogno di un pubblico, di chi l’ascolti.
Alla fine di quei due anni ritorna, ed è un altro scriverne: perché l’uomo che rimette piede sulle scene ed in sala di registrazione (“Greetings from L.A.”, nuovo album), anche se è come prima un eccezionale interprete, si fa accompagnare da una musica lievemente ottusa ed un po’ fracassona.
Una sterzata talmente brusca che vien da pensare ad un colossale scherzo, uno sberleffo rivolto al mondo, una maniera per dire “volevate questa roba? Eccovela. Farò quel che devo”.
Così che “Greetings...” contiene una base musicale greve, un rock-blues appesantito dal funky di una sezione ritmica che ignora i mezzi toni. I testi sono infarciti di pesanti allusioni sessuali, e le sue dichiarazioni sull’argomento (“Jagger e Morrison sono sex symbol, ma non hanno mai scritto niente di veramente esplicito sul sesso. Ora voglio farlo io”) fanno mestamente sorridere, soprattutto pensando a quando la sensualità nasceva spontaneamente dal suo canto senza bisogno di sotterfugi.
E’ difficile pensare agli ultimi lavori di Buckley (“Greetings...”, poi “Sefronia” e “Look at the fool”), tra il ‘73 ed il ‘75, come alla prosecuzione del viaggio interrotto nel 1971. Certo non è tutto da buttare; in alcuni momenti la personalità di Tim riesce a tenere in piedi arrangiamenti inadeguati, col risultato di produrre anche brani notevoli come Sweet surrender o Who could deny you.
Talento e qualità vocali intatte, quindi, ma niente è come prima. Negli anni delle ultime incisioni si ripulisce dalla droga, riprende a fare pratica e conduce una vita sostanzialmente sana; su disco e dal vivo il suo modo di cantare è sempre brillante, con il suo stile vertiginoso e la passione che riesce ad infondere in ogni parola. Però niente è come prima.
In una lettera del 13 settembre 1974 scrive: “cosa c’è da dire? Sei quello che sei, conosci quello che conosci, e non ci sono parole per la solitudine, nera, amara, dolente solitudine, che rosicchia le radici del silenzio nella notte...”.
Tim Buckley adesso si comporta da persona (da musicista) “ragionevole”, ma probabilmente quello che deve fare lo fa senza gioia. E si sente solo, ed isolato.
 Nella notte tra il 28 ed il 29 giugno 1975 Tim rientra da Dallas. Prima di recarsi a casa si ferma da un amico dove sniffa eroina, per sfida o per errore: in un organismo relativamente pulito come il suo l’effetto è letale. Nel giro di poco si spegne.
Tim Buckley muore a 28 anni, proprietario unicamente della sua chitarra e del suo amplificatore.
 “Buckley ha fatto per il canto quello che hanno fatto Hendrix per la chitarra e Coltrane per il sax”.
“Molto dopo la sua morte, ho capito che scrisse poche canzoni che non contenessero la parola casa. Era come se si sentisse un vagabondo, e nulla poteva rincuorarlo”.
“Come autore di canzoni era semplicemente magnifico. Come cantante, beh, nessuno era in grado di fare le stesse cose, nessuno”.
“Era un genio in tutti i sensi. Dovrebbe essere messo sullo stesso livello di Edith Piaf e Miles Davis”.
“I quattro cavalieri di una particolare apocalisse: Hendrix, Joplin, Morrison e Buckley”.
Da Larry Beckett, Hal Wilner, Danny Thompson ed altri.Tim non ha lasciato diretti eredi musicali. Troppo unico e personale, il suo talento. Anche se si può condividere con la sua figura un patrimonio che è quello della curiosità, del desiderio di scoprire e collegare tra loro mondi anche apparentemente lontani, della ricerca interiore.
Certi sperimentatori sono una compagnia che avrebbe forse gradito; Captain Beefheart, lo straordinario Scott Walker, l’estrema Diamanda Galas.
Però, personalmente, darei non so cosa per scoprire un impossibile nastro inedito, inciso in una sola notte a Cucamonga, dove Buckley diretto dal Maestro Zappa si diletta in chissà quali follie.
 Quella di Jeff è una storia più breve, ma quasi altrettanto preziosa e meritevole di una cornice propria. Una cosa è certa: che somiglianza fisica e vicinanza artistica erano impressionanti, e se non si può parlare di eredità in senso stretto è vero che certe similitudini suscitano meravigliato stupore.
Jeff Buckley morì 22 anni dopo suo padre, annegato nell’acqua di un fiume. La stessa acqua che circondava tutt’intorno l’amore meravigliosamente cantato in Song to the siren.
Per entrambi, così tanto da dire e così poco tempo per poterlo fare.


sabato 15 dicembre 2012

Tim Buckley - Parte 3a


Tim Buckley

Monografia - Parte 3a
Dopo la realizzazione del disco Buckley s’imbarca in un tour in Gran Bretagna. Essendo un’operazione a budget limitato, lo seguono solo Underwood e Friedman contando sul fatto che ad attenderli a Londra c’è Danny Thompson, contrabbassista dei Pentangle. La serata alla Queen Elizabeth Hall viene registrata ma pubblicata (titolo, “Dream letter”) solo 22 anni dopo, nel 1990 (le vie dell’industria discografica sono come quelle della Provvidenza: imperscrutabili, anche se meno disinteressate). Quei nastri mostrano un Buckley in gran forma, capace di produrre una performance intensa; l’assenza delle percussioni è bilanciata dalla grande sicurezza dei musicisti e dal calore della voce (notevole la versione di Dolphins di Fred Neil, nel segno di un ideale passaggio di testimone). Il suono è morbido, raffinato e parrebbe addirittura precorrere, nell’intreccio tra il clangore sordo della 12 corde ed il soffice timbro del vibrafono, alcune incisioni di Ralph Towner e Gary Burton, in ambito strettamente jazzistico (“Matchbook”, 1974).
Contemporaneamente qualcosa comincia a cambiare nel suo rapporto con il pubblico. Sempre più spesso, durante i concerti, dall’uditorio partono richieste perché torni all’antico, allo stile più rassicurante dei primi due dischi. La critica non l’aiuta di certo, anzi: alcune recensioni dell’epoca, a dire il vero notevolmente miopi, parlano delle sue esibizioni in termini di ginnastica vocale, definendo il suo stile come autoindulgente.
Tim Buckley non ha la minima intenzione di fermarsi, o anche solo di rallentare la sua ricerca di qualcosa di “altro”. Nei concerti sperimenta con l’emissione vocale, dilata la durata dei brani, mette in mostra un’inquietante vena a metà tra l’onirico e l’allucinatorio, vagamente somigliante a quella dell’amico Jim Morrison. Ha prodotto il suo disco più jazzistico ed ora vuole andare ancora più avanti, mentre in molti vorrebbero che se ne stesse fermo e quieto: dopo tutto, non era avviato verso il successo?

“Blue afternoon” esce nel 1969. Inizia la collaborazione con la Straight, giovane etichetta di Cohen e Zappa, limitando le scorribande improvvisate che caratterizzano ormai tutti i suoi concerti, per recuperare frammenti del clima di “Happy / Sad”. Il disco è una splendida incisione, ricca di toni malinconici e profonda tristezza. “Non c’è ricchezza che compri il mio orgoglio / non c’è dolore che purifichi la mia anima / no, soltanto una melodia triste / che salpando si allontana da me”.
Da Blue melody, ma è quasi tutto il disco che si dipana su sentieri che paiono oscillare tra il rimpianto ed un profondo senso di perdita.
Per un musicista così sincero verrebbe quasi da pensare al manifestarsi di tendenze depressive; forse l’uso di droghe, forse i ricordi di un’infanzia difficile (il padre, sofferente di una ferita alla testa dalla seconda guerra mondiale, trattava Tim come un idiota, cercando di inibire il suo talento anche con le percosse), forse un insieme di reagenti il cui accumulo è semplicemente catalizzato dal fatto che Buckley scava dentro di sè per cercare i gioielli più preziosi: il suo è davvero un viaggio interiore, se mai ce n’è stato uno. Per esprimersi come sa scortica la sua psiche, senza paura di farsi del male.

“Happy / Sad” e “Blue afternoon” sono flop commerciali. Chi vuole questa musica? Difficile da etichettare, a volte difficile da ascoltare, difficile persino lui, l’uomo, così poco incline ai compromessi. Niente denaro, niente fama, niente prima pagina su Rolling Stone: l’attenzione degli altri, l’affetto di chi ama la sua musica, queste sì, le cercherà per tutta la vita ma fuori da ogni soddisfazione mercantile.
La sua vecchia label, Elektra, gli chiede di onorare il contratto rendendosi disponibile per un’ultima incisione. Tim s’appresta ad entrare di nuovo in sala di registrazione, ma non intende lasciare l’etichetta di Holzman facendo solo atto di presenza. Così “Lorca”, 1970, dedicato al poeta spagnolo Federico Garcia Lorca, diventa il disco che più dei precedenti si sporge verso l’ignoto.
Via il vibrafono, via il folk, lontano persino dalla forma-canzone come la conosciamo.
Il brano iniziale è un oggetto di fattura così strana e spaventosa che pare uscito dalla bottega di un alchimista, indaffarato con sostanze di natura diabolicamente incerta. Le prime note sembrano montate in un collage schizofrenico, strappate dalla colonna sonora di una film di fantascienza di serie B: Lorca è definibile “canzone” per pura convenienza. Per dieci minuti un pedale insistito di basso, in un dissonante 5/4, fornisce una stranita piattaforma su cui volteggiano le tastiere e la voce di Tim: su e ancora più su, con glissati, quasi-recitativi, vibrati epilettici, poi di nuovo giù ad appoggiarsi a quel pianoforte che ricorda i primi esperimenti elettrici di Davis.
Una canzone inquietante, a dir poco; tutt’altro che perfetta, formalmente, ma di materia così densa da lasciare senza fiato. Anonymous proposition, il solco successivo, anche se armonicamente più strutturato rimane lontano da moduli standardizzati. Una melodia di grande lirismo, dal canto quasi trattenuto, imbrigliato, scorre su un sottofondo lentissimo, con i musicisti a fornire un colore più che un ritmo.
Gli altri tre brani sono meno lontani dai tempi di “Happy / Sad” ma ad ogni modo diversi, più lunghi, dilatati, non a caso ripresi mille e mille volte nelle spericolate esibizioni dal vivo.
Una cosa è certa: con un disco come “Lorca”, splendido ma con potenziale commerciale pari a zero, Buckley s’allontana sempre di più dal mercato, che non ha bisogno di roba come quella. Però lui tira dritto, e pensa ad un nuovo lavoro. Uscirà quattro mesi dopo, si chiamerà “Starsailor”.

Racconta Underwood: “visitammo un negozio di dischi scegliendo album di Berio, Xenakis, Cage, Stockhausen. Il giorno dopo gli dissi devi ascoltare questa cantante, Cathy Berberian, canta due pezzi di Berio. Lei chioccia, gorgoglia, sospira, ulula, barbuglia, urla, piange, grida, geme: ancora non la conosci, ma troverai l’affinità musicale che stai cercando”.
In realtà c’è già tutto Buckley in quell’elenco, ci sono le cose che fa in concerto e finiscono nei dischi: si capisce bene come mai a quel tizio che nel mezzo di un’esibizione gli chiese “perché non suoni Buzzin’ fly?” (un suo brano più tradizionale), il cantante rispose “perché non suono merda di cavallo.”
Riportarlo indietro è impossibile. Il piacere che prova nell’esplorare e scoprire nuove vie è pari solo a quello di ricercare nuove possibilità per la voce; in questo periodo il suo modo di cantare è definitivamente maturato ed è completamente padrone di una tecnica e di una espressività stupefacenti. C’è un’intervista in cui si coglie il suo approccio alla sostanza musicale, un mix di istinto e meditata lucidità.
“Quando metti Miles Davis, Eric Dolphy o Roland Kirk da una parte ed il rock dall’altra, il rock suona come fosse completamente prefabbricato. La ragione per cui mi piacciono Miles e gli altri è perché la loro musica nasce dalla comunicazione tra quelli che stanno suonando. Ogni nota è così studiata, nel rock, che quando qualcuno prende una nota sbagliata gli altri non sanno che fare. Non dimenticherò mai di aver sentito Roland Kirk suonare una nota sbagliata, ascoltarla, e in una frazione di secondo integrare quella nota nel sound generale e portarla da qualche altra parte. Non è un errore, davvero... è la vita. Io ci penso come ad una musica spirituale, perché suonare una musica come quella ti dà fiducia in te stesso e nella gente con cui suoni”.

“Live at the Troubadour, 1969”, pubblicato nel 1994, contiene alcuni passaggi che spiegano nei fatti le parole di Tim. Se il lessico di base della sua musica appartiene certamente al rock (o folk-rock), i linguaggi da cui pesca la sua ispirazione sono affatto diversi. In questa registrazione dal vivo (eccellente testimonianza del periodo immediatamente precedente a “Starsailor”) troviamo contemporaneamente una Blue melody suonata come un languido, lento cha-cha-cha, l’occasionale serenità di I had a talk with my woman e solidi riferimenti al jazz, come il piano elettrico di I don’t need it to rain che s’ispira al Davis di “In a silent way”. Anche le parole delle canzoni sono elementi da trattare con un approccio originale. Buckley azzarda un parallelo tra la propria esperienza e quella di John Coltrane, alla ricerca del suono universale: “sentivo Coltrane vicino come nessun altro. Anch’io ho cominciato a cantare in lingue differenti, swahili, per esempio, proprio perché suona meglio. Uno strumentista può essere compreso in qualunque modo, ma la gente è condizionata ad ascoltare solo parole uscire da una bocca... io mi sto orientando verso parole con un grande suono. Se facessi a modo mio, le parole non avrebbero significato. Sarebbe uno shock per la gente. Sarebbe salutare”. Magari solo per caso, ma riecheggia in queste righe la beffarda considerazione del Gran Maestro Francesco Zappa, che ebbe a sentenziare “nel rock’n’roll le parole delle canzoni non sono altro che rumori intonati alla musica”: d’altra parte, il Maestro avrebbe gradito (e forse gradì) ascoltare Tim che affermava “i suoni sono il mio business. Se usata bene, qualsiasi cosa è musica”.

Continua per l'ultima parte...

venerdì 14 dicembre 2012

Tim Buckley - Parte 2a


Tim Buckley

Monografia - Parte 2a
1967, Buckley ha vent’anni e due dischi all’attivo. La sua carriera non sembra per il momento discostarsi di molto da quella di altri cantautori (termine che però d’ora in poi non avrà nessun significato tradizionale in relazione a lui), soprattutto quelli più coinvolti nell’area del folk rock.
A voler essere pignoli, oltre l’ispirazione dai soliti Dylan, Phil Ochs, Tim Hardin e del grande Fred Neil, fa già capolino nella sua musica qualche idea che potrebbe allargare i possibili orizzonti sonori del futuro; l’utilizzo insistito delle percussioni, ad esempio (I never asked), che a volte creano ritmi decisamente sincopati, qualche sobrio arrangiamento scampato alle necessità discografiche e naturalmente l’uso della voce. Se Neil ha insegnato ai ragazzi cuor-d’oro-e-chitarra-in-mano che si può cantare su tonalità più basse e calde, se Dylan borbotta, fa i gargarismi e par che canti solo con il naso, chi canta come Tim? Chi può portare la propria voce su in alto, oltre il crinale del falsetto, per ridiscendere in meno di un beat a toni da baritono? Buckley è musicista puro e la voce il suo strumento.

“Odio proprio quei coglioni. E’ come dicessi ok coglioni, volete una canzone di protesta e qui ne ho una. Stavano facendo un gran casino, così ho pensato è solo per questa volta e poi non dovrò più rifarlo”.
“Parlare di guerra è inutile. Che cosa puoi dire? Vuoi che finisca ma sai che non sarà così. La paura è un soggetto limitato ma l’amore no. E non intendo tramonti ed alberi... Sono coinvolto nelle cose dell’America, dalla gente, non i politici. Tutto quello che posso vedere è ingiustizia”.
Alcune differenze cominciano a farsi visibili.
Tim Buckley sta su un palco a far sì che la propria musica e la propria esistenza siano la medesima cosa. Non ha nessun messaggio. No man can find the war, la canzone cui fa riferimento nell’intervista, è stata incisa senza che a lui importasse troppo. E non tanto della guerra, bensì della relazione tra la sua musica ed il movimento, o delle parole d’ordine. Nè profeta nè insegnante.
Il suo è un percorso tutto interno, spesso interiore; bisognerà riconoscere nei semplici segnali della sua arte il valore rivoluzionario (letteralmente) che essa contiene, senza necessità di farla appartenere ad altri contesti.
Non che sia un eremita od un asceta: tutt’altro. Comincia a far uso di droghe, mentre il suo fascino fa colpo e in Sunset Strip campeggia una sua gigantografia: “Goodbye and hello” arriva al 171° posto (!) della classifica di Billboard, miglior piazzamento di sempre per un suo disco.

Ma gli importa?
Pian piano entra in guerra con gli aspetti più ipocriti e commerciali del mondo dello spettacolo.
“Tutto quello che la gente vede sono pantaloni di velluto e lunghe chiome bionde. Qualcuno che si realizza portando camicie a fiori, quelle sono le buone vibrazioni, per loro”.
Lee Underwood, chitarrista, amico e testimone privilegiato della parabola musicale di Tim, racconta che egli “vedeva il rock blues così di moda come un furto da parte dei bianchi, un inganno emotivo. Criticava quei musicisti che impiegavano tre settimane imparando i trucchi di Clapton, mentre Charles Mingus aveva speso un’intera esistenza per far vivere la propria musica”.
Non era davvero tenero, Buckley, nè con i discografici nè con i colleghi del flower power; nel ‘69, ad un amico che gli chiedeva di andare a Woodstock, rispondeva “ma ci vai davvero? Ragazzo, sarà spaventoso”.

E’ ancora Underwood che ricorda: “dopo Goodbye and hello venne da me: jazz, mi disse. I rockers pensano che sia musica da cocktail. Cristo. Prendono un bel ragazzino là fuori, lo ricoprono di lustrini e make-up, collegano la sua chitarra a qualche ampli, gli dicono suona il blues, man, e pensano di vivere nella realtà. Suonami della musica, Lee”.
Comincia un periodo in cui Tim s’immerge completamente nell’ascolto e nello studio della musica di Miles Davis, John Coltrane, Bill Evans, Thelonius Monk, Ornette Coleman ed altri. Quelle che erano caratteristiche latenti della sua personalità musicale diventano, più che palesi, esplosive.
Via gli arrangiamenti orchestrali, gli appesantimenti da pop song: il suono diviene scarno ed immediatamente riconoscibile. Si fa strada con prepotenza, quasi come una verità rivelata ed attesa da tempo, l’idea forte che costituirà il linguaggio preferito di Buckley: l’improvvisazione. Sempre di più e sempre meglio la sua voce si anima come uno strumento in mano ad un virtuoso, senza alcuna limitazione alle possibilità espressive.
Il terzo disco, “Happy / Sad”, esce nel 1968: la via è davvero diversa, radicalmente. Il suono, innanzi tutto. Tim guida una formazione non molto ortodossa, con il fido Underwood alla chitarra, John Miller al contrabbasso, David Friedman al vibrafono e Carter CC Collins alle congas.
Se la 12 corde del leader (che sosteneva “m’impedisce di cadere nelle solite banalità che tutti suonano sulla 6 corde”) rimane un solido aggancio al passato folk, il resto è aria nuova. “Happy / Sad” mostra quanto potrà andare lontano la musica di Buckley. Già il brano d’apertura, Strange feeling, impone un moto di stupore, con quelle dissonanze dal vibrafono, poi il riff di chitarra, un 3/4 già sentito... sicuro, è un bell’omaggio al Davis di All blues. Se per comodità l’etichetta appiccicata a Tim da questo disco è quella di folk jazz, la verità non sta tanto lontana; la struttura dei brani è per la maggior parte tradizionale, le armonie sono il più delle volte semplici anche se jazzisticamente trattate (“il jazz non è che cosa suoni, ma come lo suoni”, Bill Evans). Van Morrison, in “Astral weeks”, si avvicina allo stesso risultato partendo da presupposti non troppo dissimili.
Le corde vocali di questo ventunenne col viso da angelo triste, dopo mesi passati in compagnia della più bella musica afroamericana, fanno letteralmente drizzare le orecchie; un’intensità ed un’emozione tali da far sembrare che qualsiasi strofa di qualsiasi canzone contenga un pezzo della sua esistenza. Non c’è bisogno di definizioni astruse: la sincerità è evidente, la dedizione al canto, totale. Anche se per il resto della sua vita continuerà a studiare, allenarsi, imparare, ci sono già in queste tracce qualità vocali tali da annichilire la quasi totalità di coloro che hanno mai posto la bocca davanti ad un microfono.
“Happy / Sad” è un disco bellissimo, dal suono molto caratterizzato e pienamente riuscito, nonostante l’inusualità dell’impasto strumentale. Le canzoni sono sei, senza nessun vincolo con qualsivoglia esigenza commerciale. Tim suona e canta come vuole. Un brano, in particolare, ci proietta già nel futuro del ragazzo prodigio: Gipsy woman, dodici minuti per un autentico capolavoro. Su un ritmo fortemente sostenuto dalle congas e ricamato da splendidi riff di chitarra, la voce tiene alta la tensione dal primo all’ultimo secondo, gridando, sussurrando, graffiando o accarezzando: “cast a spell on me...” è contemporaneamente preghiera ed imprecazione.

Continua...

giovedì 13 dicembre 2012

Tim Buckley - Parte 1a


Tim Buckley
Monografia - Parte 1a

Quando un artista è finalmente passato attraverso tutta questa confusione, allora si può ascoltare una voce pura. Noi siamo abituati ad imitare queste voci quando ormai se ne sono andate.
(Tim Buckley, tre mesi prima di morire)

L’ho visto crescere, da ragazzino con occhi da Bambi, balbettando poesiole su cuoricini di carta e Valentine, fino a diventare un rocker coi capelli al vento, poi un genio mattoide dell’improvvisazione vocale che spazzava via chiunque altro, poi alla fine un volgare, eccitante ballerino da roadhouse che iniettava vapore, sangue e linfa in un rhythm & blues di cui nessuno si curava.”
(Lee Underwood, chitarrista, nell’orazione funebre per l’amico Tim Buckley)

Non riusciva ad andarsene, non ci riusciva e non ci riusciva e poi – come una qualsiasi stupida creatura che all’improvviso smette di fare una cosa e comincia a farne un’altra e tu non riesci a capire se la sua vita sia il massimo della libertà o ne sia completamente priva – riuscì e se ne andò.
(Phlip Roth, Il teatro di Sabbath)

Perché qualche riflettore, ciclicamente, puntasse la propria luce su Tim Buckley, sono state necessarie due morti ed un tentativo di resurrezione.
La prima scomparsa fu ovviamente la sua, il 29 giugno 1975, a 28 anni.
La seconda fu quella del figlio, Jeff, il 29 maggio 1997, a 30 anni.
Il timido tentativo di resurrezione riguardò invece la sua musica, quando per un breve istante, nel 1983, qualcuno tra i non addetti ai lavori si chiese chi fosse quel T. Buckley la cui firma come autore compariva sotto il titolo di una canzone che, nonostante fosse stata partorita in una piccola clinica, lontano dai fasti dei reparti di ostetricia dei più grandi ospedali discografici, crebbe discretamente robusta e si fece ascoltare da un po’ di gente.
La melodia, malinconica ed indimenticabile, era quella di Song to the siren, che This Mortal Coil interpretavano con grande rispetto dell’originale: ma, finito l’effimero successo, la curiosità per quella T puntata svanì, e così anche la possibilità di ri-scoprire l’affascinante e sofferto viaggio di uno dei più audaci e talentuosi esploratori del suono negli anni ‘60/’70 e non solo.
Buckley è stato, in vita, amato, desiderato, poi snobbato e dimenticato ed infine, probabilmente, anche compatito. Era giovanissimo e bello, ricco di fascino (“seductive charm”, si diceva di lui) e straripante di talento, curiosità e avidità d’imparare ed esprimersi.
La sua vita era la sua musica e questo l’ha reso capace di inoltrarsi in regioni inesplorate ad una velocità stupefacente: forse nessuno, nel piccolo mondo del rock, è stato così rapido a passare dal genuino candore dell’adolescenza ad un linguaggio musicale così evoluto, magmatico e ricco.
La metafora della cometa, velocissima e bruciante, è per il Nostro (o per parte della sua vita) tanto abusata quanto azzeccata.

Timothy Charles Buckley III nasce il giorno di s. Valentino del 1947, vicino a New York. Dalla costa est la famiglia si trasferisce in California al principio degli anni ‘60.
Ad Anaheim, racconterà Tim, passa molti pomeriggi ad impegnare la sua voce in insoliti duelli sonori con i clacson degli autobus. L’idea di estendere i limiti estremi delle sue corde vocali gli sarebbe venuta dopo aver ascoltato gli affascinanti ed opposti timbri di una tromba e di un sax baritono, in qualche disco di famiglia.
In casa Buckley si passa da Billie Holiday e Bessie Smith, care alla nonna, all’ammirazione della madre per Frank Sinatra ed il jazz di Nat King Cole e Miles Davis. Però è il country che inizialmente coinvolge maggiormente il ragazzo: l’ascolto di Johnny Cash e Hank Williams lo porta anche a mettere le mani su banjo e chitarra.
A 17 anni tiene già qualche concerto in piccoli clubs, e a sentire Jim Fielder (compagno di liceo e poi bassista di una certa fama soprattutto con Blood Sweat and Tears) a quell’età la sua voce è completamente formata, con un’estensione di 4 ottave (in un diciassettenne...), un’intonazione perfetta ed un controllo totale. Quello che Fielder chiama “un dono di Dio”, quella incredibile, unica voce, accompagnerà Buckley fino al suo ultimo giorno: anche nei periodi peggiori, nei dischi incisi con poca convinzione, nella musica che a volte aleggiava attorno a lui come un fastidioso brusio, la sua voce ed il suo canto non saranno mai meno che perfetti.
Princess Ramona and the Cherokee Riders è l’improbabile nome del primo gruppo con cui si esibisce, in un repertorio country & western. Poi il raggiungimento dei 18 anni segna un cambio di direzione musicale, con la creazione contemporanea di due bands, i Bohemians con cui esegue covers di famosi brani pop e gli Harlequin Three, orientati verso un’eccentrica miscela di folk e poesia grazie anche alla presenza dell’amico poeta Larry Beckett, che lavorerà con lui per diverso tempo.
Dopo aver optato per gli Arlecchini Buckley comincia sempre più spesso a veder associato il proprio nome a quelli di altri due giovani personaggi come Steve Noonan e Jackson Browne (futuro soft-rocker di gran successo), grazie alla stampa musicale che vagheggia di una (inesistente) scuola cantautorale di Orange county. Comunque sia il nome di Tim comincia a circolare per Los Angeles trascinandosi appresso lusinghieri commenti: il già citato Jim Fielder presenta così il ragazzo a Jimmy Carl Black, batterista delle Mothers of Invention, che a sua volta lo fa incontrare con Herb Cohen, manager di Zappa e di Captain Beefheart. 
Cohen è immediatamente colpito dalle sue doti e spedisce un demo tape a Jac Holzman, proprietario della Elektra records, proponendogli di metterlo sotto contratto: la strada per il primo disco è spianata.

 “Tim Buckley” esce nel 1966 ed è il punto di partenza per giudicare l’impressionante evoluzione della sua musica. A cominciare dalla voce, che appare davvero come un dono del Signore.
Come spiegare altrimenti in un diciannovenne un timbro tanto bello quanto apparentemente maturo? Profondo, capace di mutare senza alcuna fatica in tenore o baritono, il colore della sua voce affascina immediatamente, già abbastanza lontano dai modelli che il rock può offrire in quel momento. La musica è legittima figlia di quel periodo e di quel genere, un folk addomesticato con il suono tipico del tentativo di raffinare canzoni originariamente voce-e-chitarra, e con pesanti interventi in studio.
Del medesimo eccesso di produzione soffrirà anche l’LP successivo, “Goodbye and hello”, del 1967, che avvicina ancora di più Tim al suono folk - rock.
Il produttore è Jerry Yester, che forse per un attimo accarezza l’idea di trasformare Buckley in qualcosa di simile ad un romantico e sofisticato menestrello per teenagers (Yester è anche produttore dei Lovin’ Spoonful). L’operazione non riesce, il disco soffre in ogni caso di appesantimenti ed inutili orpelli (le partiture per orchestra della title track, ad esempio), anche se alcune canzoni sono già sufficienti per valutare la rapida maturazione di Buckley. Once I was, tenera ballata con rapide impennate della voce, come diventerà suo stile da lì in poi, Morning glory, sulla stessa lunghezza d’onda, ripresa inoltre dai Blood Sweat and Tears dell’amico Fielder. Un brano su tutti, però, mette a nudo l’anima del ventenne Tim, il filo che collega la musica e la vita, che per lui non avranno mai significati separati. I never asked to be your mountain è una lettera alla moglie, Mary Guilbert, che gli ha chiesto di fare un passo indietro dai territori della musica per dedicarsi al bambino nato da poco, Jeffrey Scott detto Jeff. La risposta del padre è “non ho mai chiesto di essere / la tua montagna”: non sono in grado, non posso, non voglio. Ed è una risposta urlata a gran voce su un ritmo concitato, un lungo testo su cui il canto di Buckley s’arrampica cominciando a percorrere quei sentieri impervi e diversi che ritroveremo sempre più spesso, divenuti intricati come una giungla.
Questo mancato rapporto col primo figlio (l’incontrerà anni dopo, una volta sola, quando Jeff avrà otto anni) peserà in realtà su Tim per lungo tempo, e al bambino dedicherà una splendida canzone piena di rimpianto, Dream letter, le cui strofe suoneranno addolorate al punto da sembrare patetiche: “E’ un soldato o un sognatore? / E’ il bravo ometto di mamma? / Ti aiuta quando può? / O chiede di me?”.
E’, in ogni caso, la propria vita messa in versi e cantata, con quel canto che non nasconde nulla, che di Tim proietta anima e sentimenti con una sincerità percepibile ed a volte disarmante.
Come sei quello che mangi, così sei quello che canti.

Continua...

Evento: The Unbeat Generation

Il 23 Dicembre si terrà uno spettacolo, facente parte della rassegna di Teatro, Danza e Musica promossa dal comune di Reggio Emilia ed organizzata dalla compagnia del "Teatro del Cigno", dedicato agli autori della Beat Generation e della musica americana.

Si alterneranno brani musicali eseguiti dal chitarrista Franco Montanari e letture dell'attore Luca Criscuoli.
Per trascorrere una giornata festiva diversa dal solito, ritagliateVi un'oretta di spazio per godere della compagnia degli amici, di buona musica e teatro.

Officina delle Arti - Officinalia
via Brigata Reggio, 29
Reggio Emilia 
23 Dicembre 2012 Ore 18.00

Evento disponibile anche su Facebook al seguente link: The Unbeat Generation
Informazioni più dettagliate sul seguente sito: Officinalia-Comune Reggio Emilia

F.M. Staff

mercoledì 12 dicembre 2012

Monografie, preambolo


Le tre monografie che aggiungerò nei prossimi giorni su questo blog sono state pubblicate nell’arco di poco più di un anno, tra la fine del 1998 e l’inizio del 2000, dalla rivista musicale Tempi Dispari.
Due di esse riguardano straordinari personaggi che all’epoca avevano purtroppo già abbandonato questa valle di lacrime, Tim Buckley e Kurt Cobain. L’altra riguarda gli XTC, gruppo attivo dalla fine degli anni ’70 ma ben presto relegato ai trafiletti più brevi delle cronache musicali.

Mentre le rileggevo mi rendevo conto di quanto poco sia cambiato, nella sua natura essenziale, il rapporto tra musica ed industria, compresa l’inevitabile presenza della “variabile” mass-media.
Basterebbe aggiornare da un punto di vista tecnologico il linguaggio (aggiungendo accenni a CD-DVD-I Pod e supporti vari, a YouTube, alla musica diffusa e venduta su Internet, alla pratica del file sharing, eccetera) per rendere quasi perfettamente attuale la sceneggiatura di un dramma come quello di Buckley, schiacciato da un apparato mercantile-discografico incapace di riconoscere e proteggere l’autentico genio. O di una farsa come quella degli XTC, probabilmente i massimi autori di pop da molto tempo a questa parte, ma increduli anni fa nel sentirsi chiedere dai loro discografici se non era possibile riciclarsi come gruppo di hard rock (per quanto riguarda Cobain, invece, basterebbe pensare a come il mondo dei media e dello show business ha impattato la sua vita, a quello che oggi sorbiamo senza un lamento chiamandolo “informazione”).

Il mercato della musica è veramente strano: buffo, persino. Mentre le tecnologie informatiche permettono da molto tempo un uso a 360°, diciamo così, di pratiche come campionamenti ed estrazioni di frammenti da altri brani (producendo parodie, citazioni esatte, singole cellule ritmiche e via dicendo), le politiche sul diritto d’autore fanno fatica a staccarsi da logiche degli anni del grammofono. Per non dire delle lagne sulle masterizzazioni pirata, come se fosse invenzione recente l’idea di registrare un disco di proprietà di un amico per evitare di acquistarlo.
Al tempo stesso, ricordo che tre anni fa mentre rileggevo una prima volta queste monografie per correggerle, assegnavano i Grammy 2008 e vinceva un signore che allora andava per i 61 anni, Robert Plant, che dichiarava col premio ancora in mano “Ai vecchi tempi avremmo etichettato questa serata come commerciale, ma in fondo è un buon modo per passare una domenica”. E il suo “Raising Sand”, firmato con Alison Krauss, era prodotto e suonato con T-Bone Burnett e Marc Ribot, non esattamente ragazzini di primo pelo.
Strano, no? I Grammies sono una delle massime espressioni autocelebrative del music business (non a caso nel 2009 erano ospiti previsti nella serata i soliti Justin Timberlake, Rihanna, Boyz II Men e via glamoureggiando). Business che notoriamente, per dirne una, considera economicamente appetibile soprattutto la fascia d’età tra i 12 ed i 20-22 anni. Fascia i cui interessi, presumibilmente, non prevedevano e non prevedono l’acquisto di un cd inciso dall’ex cantante degli Zeppelin e da una stella del country.
Quindi strano, sì, un po’ strano. Soprattutto perché allora c’avevano azzeccato in pieno. Il disco è magnifico...

Buckley ha graffiato la musica del suo tempo da una traiettoria esterna, ellittica.
XTC hanno scavato dall’interno del moloch cercando uno spiraglio di luce.
Cobain ha demolito, schiacciato, triturato, rendendo impossibile l’impassibilità.
Tutti quanti hanno reso la musica per un breve tratto di tempo un poco più vitale ed autentica.

domenica 2 dicembre 2012