venerdì 14 dicembre 2012

Tim Buckley - Parte 2a


Tim Buckley

Monografia - Parte 2a
1967, Buckley ha vent’anni e due dischi all’attivo. La sua carriera non sembra per il momento discostarsi di molto da quella di altri cantautori (termine che però d’ora in poi non avrà nessun significato tradizionale in relazione a lui), soprattutto quelli più coinvolti nell’area del folk rock.
A voler essere pignoli, oltre l’ispirazione dai soliti Dylan, Phil Ochs, Tim Hardin e del grande Fred Neil, fa già capolino nella sua musica qualche idea che potrebbe allargare i possibili orizzonti sonori del futuro; l’utilizzo insistito delle percussioni, ad esempio (I never asked), che a volte creano ritmi decisamente sincopati, qualche sobrio arrangiamento scampato alle necessità discografiche e naturalmente l’uso della voce. Se Neil ha insegnato ai ragazzi cuor-d’oro-e-chitarra-in-mano che si può cantare su tonalità più basse e calde, se Dylan borbotta, fa i gargarismi e par che canti solo con il naso, chi canta come Tim? Chi può portare la propria voce su in alto, oltre il crinale del falsetto, per ridiscendere in meno di un beat a toni da baritono? Buckley è musicista puro e la voce il suo strumento.

“Odio proprio quei coglioni. E’ come dicessi ok coglioni, volete una canzone di protesta e qui ne ho una. Stavano facendo un gran casino, così ho pensato è solo per questa volta e poi non dovrò più rifarlo”.
“Parlare di guerra è inutile. Che cosa puoi dire? Vuoi che finisca ma sai che non sarà così. La paura è un soggetto limitato ma l’amore no. E non intendo tramonti ed alberi... Sono coinvolto nelle cose dell’America, dalla gente, non i politici. Tutto quello che posso vedere è ingiustizia”.
Alcune differenze cominciano a farsi visibili.
Tim Buckley sta su un palco a far sì che la propria musica e la propria esistenza siano la medesima cosa. Non ha nessun messaggio. No man can find the war, la canzone cui fa riferimento nell’intervista, è stata incisa senza che a lui importasse troppo. E non tanto della guerra, bensì della relazione tra la sua musica ed il movimento, o delle parole d’ordine. Nè profeta nè insegnante.
Il suo è un percorso tutto interno, spesso interiore; bisognerà riconoscere nei semplici segnali della sua arte il valore rivoluzionario (letteralmente) che essa contiene, senza necessità di farla appartenere ad altri contesti.
Non che sia un eremita od un asceta: tutt’altro. Comincia a far uso di droghe, mentre il suo fascino fa colpo e in Sunset Strip campeggia una sua gigantografia: “Goodbye and hello” arriva al 171° posto (!) della classifica di Billboard, miglior piazzamento di sempre per un suo disco.

Ma gli importa?
Pian piano entra in guerra con gli aspetti più ipocriti e commerciali del mondo dello spettacolo.
“Tutto quello che la gente vede sono pantaloni di velluto e lunghe chiome bionde. Qualcuno che si realizza portando camicie a fiori, quelle sono le buone vibrazioni, per loro”.
Lee Underwood, chitarrista, amico e testimone privilegiato della parabola musicale di Tim, racconta che egli “vedeva il rock blues così di moda come un furto da parte dei bianchi, un inganno emotivo. Criticava quei musicisti che impiegavano tre settimane imparando i trucchi di Clapton, mentre Charles Mingus aveva speso un’intera esistenza per far vivere la propria musica”.
Non era davvero tenero, Buckley, nè con i discografici nè con i colleghi del flower power; nel ‘69, ad un amico che gli chiedeva di andare a Woodstock, rispondeva “ma ci vai davvero? Ragazzo, sarà spaventoso”.

E’ ancora Underwood che ricorda: “dopo Goodbye and hello venne da me: jazz, mi disse. I rockers pensano che sia musica da cocktail. Cristo. Prendono un bel ragazzino là fuori, lo ricoprono di lustrini e make-up, collegano la sua chitarra a qualche ampli, gli dicono suona il blues, man, e pensano di vivere nella realtà. Suonami della musica, Lee”.
Comincia un periodo in cui Tim s’immerge completamente nell’ascolto e nello studio della musica di Miles Davis, John Coltrane, Bill Evans, Thelonius Monk, Ornette Coleman ed altri. Quelle che erano caratteristiche latenti della sua personalità musicale diventano, più che palesi, esplosive.
Via gli arrangiamenti orchestrali, gli appesantimenti da pop song: il suono diviene scarno ed immediatamente riconoscibile. Si fa strada con prepotenza, quasi come una verità rivelata ed attesa da tempo, l’idea forte che costituirà il linguaggio preferito di Buckley: l’improvvisazione. Sempre di più e sempre meglio la sua voce si anima come uno strumento in mano ad un virtuoso, senza alcuna limitazione alle possibilità espressive.
Il terzo disco, “Happy / Sad”, esce nel 1968: la via è davvero diversa, radicalmente. Il suono, innanzi tutto. Tim guida una formazione non molto ortodossa, con il fido Underwood alla chitarra, John Miller al contrabbasso, David Friedman al vibrafono e Carter CC Collins alle congas.
Se la 12 corde del leader (che sosteneva “m’impedisce di cadere nelle solite banalità che tutti suonano sulla 6 corde”) rimane un solido aggancio al passato folk, il resto è aria nuova. “Happy / Sad” mostra quanto potrà andare lontano la musica di Buckley. Già il brano d’apertura, Strange feeling, impone un moto di stupore, con quelle dissonanze dal vibrafono, poi il riff di chitarra, un 3/4 già sentito... sicuro, è un bell’omaggio al Davis di All blues. Se per comodità l’etichetta appiccicata a Tim da questo disco è quella di folk jazz, la verità non sta tanto lontana; la struttura dei brani è per la maggior parte tradizionale, le armonie sono il più delle volte semplici anche se jazzisticamente trattate (“il jazz non è che cosa suoni, ma come lo suoni”, Bill Evans). Van Morrison, in “Astral weeks”, si avvicina allo stesso risultato partendo da presupposti non troppo dissimili.
Le corde vocali di questo ventunenne col viso da angelo triste, dopo mesi passati in compagnia della più bella musica afroamericana, fanno letteralmente drizzare le orecchie; un’intensità ed un’emozione tali da far sembrare che qualsiasi strofa di qualsiasi canzone contenga un pezzo della sua esistenza. Non c’è bisogno di definizioni astruse: la sincerità è evidente, la dedizione al canto, totale. Anche se per il resto della sua vita continuerà a studiare, allenarsi, imparare, ci sono già in queste tracce qualità vocali tali da annichilire la quasi totalità di coloro che hanno mai posto la bocca davanti ad un microfono.
“Happy / Sad” è un disco bellissimo, dal suono molto caratterizzato e pienamente riuscito, nonostante l’inusualità dell’impasto strumentale. Le canzoni sono sei, senza nessun vincolo con qualsivoglia esigenza commerciale. Tim suona e canta come vuole. Un brano, in particolare, ci proietta già nel futuro del ragazzo prodigio: Gipsy woman, dodici minuti per un autentico capolavoro. Su un ritmo fortemente sostenuto dalle congas e ricamato da splendidi riff di chitarra, la voce tiene alta la tensione dal primo all’ultimo secondo, gridando, sussurrando, graffiando o accarezzando: “cast a spell on me...” è contemporaneamente preghiera ed imprecazione.

Continua...

Nessun commento:

Posta un commento