Tim Buckley
Monografia - Parte 2a
1967, Buckley ha vent’anni e due dischi all’attivo. La sua
carriera non sembra per il momento discostarsi di molto da quella di altri
cantautori (termine che però d’ora in poi non avrà nessun significato
tradizionale in relazione a lui), soprattutto quelli più coinvolti nell’area
del folk rock.
A voler essere pignoli, oltre l’ispirazione dai soliti
Dylan, Phil Ochs, Tim Hardin e del grande Fred Neil, fa già capolino nella sua
musica qualche idea che potrebbe allargare i possibili orizzonti sonori del
futuro; l’utilizzo insistito delle percussioni, ad esempio (I never asked),
che a volte creano ritmi decisamente sincopati, qualche sobrio arrangiamento
scampato alle necessità discografiche e naturalmente l’uso della voce. Se Neil
ha insegnato ai ragazzi cuor-d’oro-e-chitarra-in-mano che si può cantare su
tonalità più basse e calde, se Dylan borbotta, fa i gargarismi e par che canti
solo con il naso, chi canta come Tim? Chi può portare la propria voce su in
alto, oltre il crinale del falsetto, per ridiscendere in meno di un beat a toni
da baritono? Buckley è musicista puro e la voce il suo strumento.
“Odio proprio quei coglioni. E’ come dicessi ok coglioni,
volete una canzone di protesta e qui ne ho una. Stavano facendo un gran casino,
così ho pensato è solo per questa volta e poi non dovrò più rifarlo”.
“Parlare di guerra è inutile. Che cosa puoi dire? Vuoi che
finisca ma sai che non sarà così. La paura è un soggetto limitato ma l’amore
no. E non intendo tramonti ed alberi... Sono coinvolto nelle cose dell’America,
dalla gente, non i politici. Tutto quello che posso vedere è ingiustizia”.
Alcune differenze cominciano a farsi visibili.
Tim Buckley sta su un palco a far sì che la propria musica e
la propria esistenza siano la medesima cosa. Non ha nessun messaggio. No man
can find the war, la canzone cui fa riferimento nell’intervista, è stata
incisa senza che a lui importasse troppo. E non tanto della guerra, bensì della
relazione tra la sua musica ed il movimento, o delle parole d’ordine. Nè
profeta nè insegnante.
Il suo è un percorso tutto interno, spesso interiore;
bisognerà riconoscere nei semplici segnali della sua arte il valore
rivoluzionario (letteralmente) che essa contiene, senza necessità di farla
appartenere ad altri contesti.
Non che sia un eremita od un asceta: tutt’altro. Comincia a
far uso di droghe, mentre il suo fascino fa colpo e in Sunset Strip campeggia
una sua gigantografia: “Goodbye and hello” arriva al 171° posto (!) della
classifica di Billboard, miglior piazzamento di sempre per un suo disco.
Ma gli importa?
Pian piano entra in guerra con gli aspetti più ipocriti e
commerciali del mondo dello spettacolo.
“Tutto quello che la gente vede sono pantaloni di velluto e
lunghe chiome bionde. Qualcuno che si realizza portando camicie a fiori, quelle
sono le buone vibrazioni, per loro”.
Lee Underwood, chitarrista, amico e testimone privilegiato
della parabola musicale di Tim, racconta che egli “vedeva il rock blues così di
moda come un furto da parte dei bianchi, un inganno emotivo. Criticava quei
musicisti che impiegavano tre settimane imparando i trucchi di Clapton, mentre
Charles Mingus aveva speso un’intera esistenza per far vivere la propria
musica”.
Non era davvero tenero, Buckley, nè con i discografici nè
con i colleghi del flower power; nel ‘69, ad un amico che gli chiedeva di
andare a Woodstock, rispondeva “ma ci vai davvero? Ragazzo, sarà spaventoso”.
E’ ancora Underwood che ricorda: “dopo Goodbye and hello
venne da me: jazz, mi disse. I rockers pensano che sia musica da cocktail.
Cristo. Prendono un bel ragazzino là fuori, lo ricoprono di lustrini e make-up,
collegano la sua chitarra a qualche ampli, gli dicono suona il blues, man, e
pensano di vivere nella realtà. Suonami della musica, Lee”.
Comincia un periodo in cui Tim s’immerge completamente
nell’ascolto e nello studio della musica di Miles Davis, John Coltrane, Bill
Evans, Thelonius Monk, Ornette Coleman ed altri. Quelle che erano
caratteristiche latenti della sua personalità musicale diventano, più che
palesi, esplosive.
Via gli arrangiamenti orchestrali, gli appesantimenti da pop
song: il suono diviene scarno ed immediatamente riconoscibile. Si fa strada con
prepotenza, quasi come una verità rivelata ed attesa da tempo, l’idea forte che
costituirà il linguaggio preferito di Buckley: l’improvvisazione. Sempre di più
e sempre meglio la sua voce si anima come uno strumento in mano ad un virtuoso,
senza alcuna limitazione alle possibilità espressive.
Il terzo disco, “Happy / Sad”, esce nel 1968: la via è
davvero diversa, radicalmente. Il suono, innanzi tutto. Tim guida una
formazione non molto ortodossa, con il fido Underwood alla chitarra, John
Miller al contrabbasso, David Friedman al vibrafono e Carter CC Collins alle
congas.
Se la 12 corde del leader (che sosteneva “m’impedisce di
cadere nelle solite banalità che tutti suonano sulla 6 corde”) rimane un solido
aggancio al passato folk, il resto è aria nuova. “Happy / Sad” mostra quanto
potrà andare lontano la musica di Buckley. Già il brano d’apertura, Strange
feeling, impone un moto di stupore, con quelle dissonanze dal vibrafono,
poi il riff di chitarra, un 3/4 già sentito... sicuro, è un bell’omaggio al
Davis di All blues. Se per comodità l’etichetta appiccicata a Tim da
questo disco è quella di folk jazz, la verità non sta tanto lontana; la
struttura dei brani è per la maggior parte tradizionale, le armonie sono il più
delle volte semplici anche se jazzisticamente trattate (“il jazz non è che cosa
suoni, ma come lo suoni”, Bill Evans). Van Morrison, in “Astral weeks”, si
avvicina allo stesso risultato partendo da presupposti non troppo dissimili.
Le corde vocali di questo ventunenne col viso da angelo
triste, dopo mesi passati in compagnia della più bella musica afroamericana,
fanno letteralmente drizzare le orecchie; un’intensità ed un’emozione tali da
far sembrare che qualsiasi strofa di qualsiasi canzone contenga un pezzo della
sua esistenza. Non c’è bisogno di definizioni astruse: la sincerità è evidente,
la dedizione al canto, totale. Anche se per il resto della sua vita continuerà
a studiare, allenarsi, imparare, ci sono già in queste tracce qualità vocali
tali da annichilire la quasi totalità di coloro che hanno mai posto la bocca
davanti ad un microfono.
“Happy / Sad” è un disco bellissimo, dal suono molto
caratterizzato e pienamente riuscito, nonostante l’inusualità dell’impasto
strumentale. Le canzoni sono sei, senza nessun vincolo con qualsivoglia
esigenza commerciale. Tim suona e canta come vuole. Un brano, in particolare,
ci proietta già nel futuro del ragazzo prodigio: Gipsy woman, dodici
minuti per un autentico capolavoro. Su un ritmo fortemente sostenuto dalle
congas e ricamato da splendidi riff di chitarra, la voce tiene alta la tensione
dal primo all’ultimo secondo, gridando, sussurrando, graffiando o accarezzando:
“cast a spell on me...” è contemporaneamente preghiera ed imprecazione.
Continua...
Continua...
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