Tim Buckley
Monografia - Parte 3a
Dopo la realizzazione del disco Buckley s’imbarca in un tour
in Gran Bretagna. Essendo un’operazione a budget limitato, lo seguono solo
Underwood e Friedman contando sul fatto che ad attenderli a Londra c’è Danny
Thompson, contrabbassista dei Pentangle. La serata alla Queen Elizabeth Hall
viene registrata ma pubblicata (titolo, “Dream letter”) solo 22 anni dopo, nel
1990 (le vie dell’industria discografica sono come quelle della Provvidenza:
imperscrutabili, anche se meno disinteressate). Quei nastri mostrano un Buckley
in gran forma, capace di produrre una performance intensa; l’assenza delle
percussioni è bilanciata dalla grande sicurezza dei musicisti e dal calore
della voce (notevole la versione di Dolphins di Fred Neil, nel segno di
un ideale passaggio di testimone). Il suono è morbido, raffinato e parrebbe
addirittura precorrere, nell’intreccio tra il clangore sordo della 12 corde ed
il soffice timbro del vibrafono, alcune incisioni di Ralph Towner e Gary
Burton, in ambito strettamente jazzistico (“Matchbook”, 1974).
Contemporaneamente qualcosa comincia a cambiare nel suo
rapporto con il pubblico. Sempre più spesso, durante i concerti, dall’uditorio
partono richieste perché torni all’antico, allo stile più rassicurante dei
primi due dischi. La critica non l’aiuta di certo, anzi: alcune recensioni
dell’epoca, a dire il vero notevolmente miopi, parlano delle sue esibizioni in
termini di ginnastica vocale, definendo il suo stile come autoindulgente.
Tim Buckley non ha la minima intenzione di fermarsi, o anche
solo di rallentare la sua ricerca di qualcosa di “altro”. Nei concerti sperimenta
con l’emissione vocale, dilata la durata dei brani, mette in mostra
un’inquietante vena a metà tra l’onirico e l’allucinatorio, vagamente
somigliante a quella dell’amico Jim Morrison. Ha prodotto il suo disco più
jazzistico ed ora vuole andare ancora più avanti, mentre in molti vorrebbero
che se ne stesse fermo e quieto: dopo tutto, non era avviato verso il successo?
“Blue
afternoon” esce nel 1969. Inizia la collaborazione con la Straight , giovane
etichetta di Cohen e Zappa, limitando le scorribande improvvisate che
caratterizzano ormai tutti i suoi concerti, per recuperare frammenti del clima
di “Happy / Sad”. Il disco è una splendida incisione, ricca di toni malinconici
e profonda tristezza. “Non c’è ricchezza che compri il mio orgoglio / non c’è dolore
che purifichi la mia anima / no, soltanto una melodia triste / che salpando si
allontana da me”.
Da Blue melody, ma è quasi tutto il disco che si
dipana su sentieri che paiono oscillare tra il rimpianto ed un profondo senso
di perdita.
Per un musicista così sincero verrebbe quasi da pensare al
manifestarsi di tendenze depressive; forse l’uso di droghe, forse i ricordi di
un’infanzia difficile (il padre, sofferente di una ferita alla testa dalla
seconda guerra mondiale, trattava Tim come un idiota, cercando di inibire il
suo talento anche con le percosse), forse un insieme di reagenti il cui
accumulo è semplicemente catalizzato dal fatto che Buckley scava dentro di sè
per cercare i gioielli più preziosi: il suo è davvero un viaggio interiore, se
mai ce n’è stato uno. Per esprimersi come sa scortica la sua psiche, senza
paura di farsi del male.
“Happy /
Sad” e “Blue afternoon” sono flop commerciali. Chi vuole questa musica?
Difficile da etichettare, a volte difficile da ascoltare, difficile persino
lui, l’uomo, così poco incline ai compromessi. Niente denaro, niente fama,
niente prima pagina su Rolling Stone: l’attenzione degli altri, l’affetto di
chi ama la sua musica, queste sì, le cercherà per tutta la vita ma fuori da
ogni soddisfazione mercantile.
La sua vecchia label, Elektra, gli chiede di onorare il
contratto rendendosi disponibile per un’ultima incisione. Tim s’appresta ad
entrare di nuovo in sala di registrazione, ma non intende lasciare l’etichetta
di Holzman facendo solo atto di presenza. Così “Lorca”, 1970, dedicato al poeta
spagnolo Federico Garcia Lorca, diventa il disco che più dei precedenti si
sporge verso l’ignoto.
Via il vibrafono, via il folk, lontano persino dalla
forma-canzone come la conosciamo.
Il brano iniziale è un oggetto di fattura così strana e
spaventosa che pare uscito dalla bottega di un alchimista, indaffarato con
sostanze di natura diabolicamente incerta. Le prime note sembrano montate in un
collage schizofrenico, strappate dalla colonna sonora di una film di
fantascienza di serie B: Lorca è definibile “canzone” per pura
convenienza. Per dieci minuti un pedale insistito di basso, in un dissonante
5/4, fornisce una stranita piattaforma su cui volteggiano le tastiere e la voce
di Tim: su e ancora più su, con glissati, quasi-recitativi, vibrati epilettici,
poi di nuovo giù ad appoggiarsi a quel pianoforte che ricorda i primi
esperimenti elettrici di Davis.
Una canzone inquietante, a dir poco; tutt’altro che
perfetta, formalmente, ma di materia così densa da lasciare senza fiato. Anonymous
proposition, il solco successivo, anche se armonicamente più strutturato
rimane lontano da moduli standardizzati. Una melodia di grande lirismo, dal
canto quasi trattenuto, imbrigliato, scorre su un sottofondo lentissimo, con i
musicisti a fornire un colore più che un ritmo.
Gli altri tre brani sono meno lontani dai tempi di “Happy /
Sad” ma ad ogni modo diversi, più lunghi, dilatati, non a caso ripresi mille e
mille volte nelle spericolate esibizioni dal vivo.
Una cosa è certa: con un disco come “Lorca”, splendido ma
con potenziale commerciale pari a zero, Buckley s’allontana sempre di più dal
mercato, che non ha bisogno di roba come quella. Però lui tira dritto, e pensa
ad un nuovo lavoro. Uscirà quattro mesi dopo, si chiamerà “Starsailor”.
Racconta Underwood: “visitammo un negozio di dischi
scegliendo album di Berio, Xenakis, Cage, Stockhausen. Il giorno dopo gli dissi
devi ascoltare questa cantante, Cathy Berberian, canta due pezzi di Berio. Lei
chioccia, gorgoglia, sospira, ulula, barbuglia, urla, piange, grida, geme:
ancora non la conosci, ma troverai l’affinità musicale che stai cercando”.
In realtà c’è già tutto Buckley in quell’elenco, ci sono le
cose che fa in concerto e finiscono nei dischi: si capisce bene come mai a quel
tizio che nel mezzo di un’esibizione gli chiese “perché non suoni Buzzin’
fly?” (un suo brano più tradizionale), il cantante rispose “perché non
suono merda di cavallo.”
Riportarlo indietro è impossibile. Il piacere che prova
nell’esplorare e scoprire nuove vie è pari solo a quello di ricercare nuove
possibilità per la voce; in questo periodo il suo modo di cantare è
definitivamente maturato ed è completamente padrone di una tecnica e di una
espressività stupefacenti. C’è un’intervista in cui si coglie il suo approccio
alla sostanza musicale, un mix di istinto e meditata lucidità.
“Quando metti Miles Davis, Eric Dolphy o Roland Kirk da una
parte ed il rock dall’altra, il rock suona come fosse completamente
prefabbricato. La ragione per cui mi piacciono Miles e gli altri è perché la
loro musica nasce dalla comunicazione tra quelli che stanno suonando. Ogni nota
è così studiata, nel rock, che quando qualcuno prende una nota sbagliata gli
altri non sanno che fare. Non dimenticherò mai di aver sentito Roland Kirk
suonare una nota sbagliata, ascoltarla, e in una frazione di secondo integrare
quella nota nel sound generale e portarla da qualche altra parte. Non è un
errore, davvero... è la vita. Io ci penso come ad una musica spirituale, perché
suonare una musica come quella ti dà fiducia in te stesso e nella gente con cui
suoni”.
“Live at the Troubadour, 1969” , pubblicato nel 1994,
contiene alcuni passaggi che spiegano nei fatti le parole di Tim. Se il lessico
di base della sua musica appartiene certamente al rock (o folk-rock), i
linguaggi da cui pesca la sua ispirazione sono affatto diversi. In questa
registrazione dal vivo (eccellente testimonianza del periodo immediatamente
precedente a “Starsailor”) troviamo contemporaneamente una Blue melody
suonata come un languido, lento cha-cha-cha, l’occasionale serenità di I had
a talk with my woman e solidi riferimenti al jazz, come il piano elettrico
di I don’t need it to rain che s’ispira al Davis di “In a silent
way”. Anche le parole delle canzoni sono elementi da trattare con un approccio
originale. Buckley azzarda un parallelo tra la propria esperienza e quella di
John Coltrane, alla ricerca del suono universale: “sentivo Coltrane vicino come
nessun altro. Anch’io ho cominciato a cantare in lingue differenti, swahili,
per esempio, proprio perché suona meglio. Uno strumentista può essere compreso
in qualunque modo, ma la gente è condizionata ad ascoltare solo parole uscire
da una bocca... io mi sto orientando verso parole con un grande suono. Se
facessi a modo mio, le parole non avrebbero significato. Sarebbe uno shock per
la gente. Sarebbe salutare”. Magari solo per caso, ma riecheggia in queste
righe la beffarda considerazione del Gran Maestro Francesco Zappa, che ebbe a
sentenziare “nel rock’n’roll le parole delle canzoni non sono altro che rumori
intonati alla musica”: d’altra parte, il Maestro avrebbe gradito (e forse
gradì) ascoltare Tim che affermava “i suoni sono il mio business. Se usata
bene, qualsiasi cosa è musica”.
Continua per l'ultima parte...
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