sabato 15 dicembre 2012

Tim Buckley - Parte 3a


Tim Buckley

Monografia - Parte 3a
Dopo la realizzazione del disco Buckley s’imbarca in un tour in Gran Bretagna. Essendo un’operazione a budget limitato, lo seguono solo Underwood e Friedman contando sul fatto che ad attenderli a Londra c’è Danny Thompson, contrabbassista dei Pentangle. La serata alla Queen Elizabeth Hall viene registrata ma pubblicata (titolo, “Dream letter”) solo 22 anni dopo, nel 1990 (le vie dell’industria discografica sono come quelle della Provvidenza: imperscrutabili, anche se meno disinteressate). Quei nastri mostrano un Buckley in gran forma, capace di produrre una performance intensa; l’assenza delle percussioni è bilanciata dalla grande sicurezza dei musicisti e dal calore della voce (notevole la versione di Dolphins di Fred Neil, nel segno di un ideale passaggio di testimone). Il suono è morbido, raffinato e parrebbe addirittura precorrere, nell’intreccio tra il clangore sordo della 12 corde ed il soffice timbro del vibrafono, alcune incisioni di Ralph Towner e Gary Burton, in ambito strettamente jazzistico (“Matchbook”, 1974).
Contemporaneamente qualcosa comincia a cambiare nel suo rapporto con il pubblico. Sempre più spesso, durante i concerti, dall’uditorio partono richieste perché torni all’antico, allo stile più rassicurante dei primi due dischi. La critica non l’aiuta di certo, anzi: alcune recensioni dell’epoca, a dire il vero notevolmente miopi, parlano delle sue esibizioni in termini di ginnastica vocale, definendo il suo stile come autoindulgente.
Tim Buckley non ha la minima intenzione di fermarsi, o anche solo di rallentare la sua ricerca di qualcosa di “altro”. Nei concerti sperimenta con l’emissione vocale, dilata la durata dei brani, mette in mostra un’inquietante vena a metà tra l’onirico e l’allucinatorio, vagamente somigliante a quella dell’amico Jim Morrison. Ha prodotto il suo disco più jazzistico ed ora vuole andare ancora più avanti, mentre in molti vorrebbero che se ne stesse fermo e quieto: dopo tutto, non era avviato verso il successo?

“Blue afternoon” esce nel 1969. Inizia la collaborazione con la Straight, giovane etichetta di Cohen e Zappa, limitando le scorribande improvvisate che caratterizzano ormai tutti i suoi concerti, per recuperare frammenti del clima di “Happy / Sad”. Il disco è una splendida incisione, ricca di toni malinconici e profonda tristezza. “Non c’è ricchezza che compri il mio orgoglio / non c’è dolore che purifichi la mia anima / no, soltanto una melodia triste / che salpando si allontana da me”.
Da Blue melody, ma è quasi tutto il disco che si dipana su sentieri che paiono oscillare tra il rimpianto ed un profondo senso di perdita.
Per un musicista così sincero verrebbe quasi da pensare al manifestarsi di tendenze depressive; forse l’uso di droghe, forse i ricordi di un’infanzia difficile (il padre, sofferente di una ferita alla testa dalla seconda guerra mondiale, trattava Tim come un idiota, cercando di inibire il suo talento anche con le percosse), forse un insieme di reagenti il cui accumulo è semplicemente catalizzato dal fatto che Buckley scava dentro di sè per cercare i gioielli più preziosi: il suo è davvero un viaggio interiore, se mai ce n’è stato uno. Per esprimersi come sa scortica la sua psiche, senza paura di farsi del male.

“Happy / Sad” e “Blue afternoon” sono flop commerciali. Chi vuole questa musica? Difficile da etichettare, a volte difficile da ascoltare, difficile persino lui, l’uomo, così poco incline ai compromessi. Niente denaro, niente fama, niente prima pagina su Rolling Stone: l’attenzione degli altri, l’affetto di chi ama la sua musica, queste sì, le cercherà per tutta la vita ma fuori da ogni soddisfazione mercantile.
La sua vecchia label, Elektra, gli chiede di onorare il contratto rendendosi disponibile per un’ultima incisione. Tim s’appresta ad entrare di nuovo in sala di registrazione, ma non intende lasciare l’etichetta di Holzman facendo solo atto di presenza. Così “Lorca”, 1970, dedicato al poeta spagnolo Federico Garcia Lorca, diventa il disco che più dei precedenti si sporge verso l’ignoto.
Via il vibrafono, via il folk, lontano persino dalla forma-canzone come la conosciamo.
Il brano iniziale è un oggetto di fattura così strana e spaventosa che pare uscito dalla bottega di un alchimista, indaffarato con sostanze di natura diabolicamente incerta. Le prime note sembrano montate in un collage schizofrenico, strappate dalla colonna sonora di una film di fantascienza di serie B: Lorca è definibile “canzone” per pura convenienza. Per dieci minuti un pedale insistito di basso, in un dissonante 5/4, fornisce una stranita piattaforma su cui volteggiano le tastiere e la voce di Tim: su e ancora più su, con glissati, quasi-recitativi, vibrati epilettici, poi di nuovo giù ad appoggiarsi a quel pianoforte che ricorda i primi esperimenti elettrici di Davis.
Una canzone inquietante, a dir poco; tutt’altro che perfetta, formalmente, ma di materia così densa da lasciare senza fiato. Anonymous proposition, il solco successivo, anche se armonicamente più strutturato rimane lontano da moduli standardizzati. Una melodia di grande lirismo, dal canto quasi trattenuto, imbrigliato, scorre su un sottofondo lentissimo, con i musicisti a fornire un colore più che un ritmo.
Gli altri tre brani sono meno lontani dai tempi di “Happy / Sad” ma ad ogni modo diversi, più lunghi, dilatati, non a caso ripresi mille e mille volte nelle spericolate esibizioni dal vivo.
Una cosa è certa: con un disco come “Lorca”, splendido ma con potenziale commerciale pari a zero, Buckley s’allontana sempre di più dal mercato, che non ha bisogno di roba come quella. Però lui tira dritto, e pensa ad un nuovo lavoro. Uscirà quattro mesi dopo, si chiamerà “Starsailor”.

Racconta Underwood: “visitammo un negozio di dischi scegliendo album di Berio, Xenakis, Cage, Stockhausen. Il giorno dopo gli dissi devi ascoltare questa cantante, Cathy Berberian, canta due pezzi di Berio. Lei chioccia, gorgoglia, sospira, ulula, barbuglia, urla, piange, grida, geme: ancora non la conosci, ma troverai l’affinità musicale che stai cercando”.
In realtà c’è già tutto Buckley in quell’elenco, ci sono le cose che fa in concerto e finiscono nei dischi: si capisce bene come mai a quel tizio che nel mezzo di un’esibizione gli chiese “perché non suoni Buzzin’ fly?” (un suo brano più tradizionale), il cantante rispose “perché non suono merda di cavallo.”
Riportarlo indietro è impossibile. Il piacere che prova nell’esplorare e scoprire nuove vie è pari solo a quello di ricercare nuove possibilità per la voce; in questo periodo il suo modo di cantare è definitivamente maturato ed è completamente padrone di una tecnica e di una espressività stupefacenti. C’è un’intervista in cui si coglie il suo approccio alla sostanza musicale, un mix di istinto e meditata lucidità.
“Quando metti Miles Davis, Eric Dolphy o Roland Kirk da una parte ed il rock dall’altra, il rock suona come fosse completamente prefabbricato. La ragione per cui mi piacciono Miles e gli altri è perché la loro musica nasce dalla comunicazione tra quelli che stanno suonando. Ogni nota è così studiata, nel rock, che quando qualcuno prende una nota sbagliata gli altri non sanno che fare. Non dimenticherò mai di aver sentito Roland Kirk suonare una nota sbagliata, ascoltarla, e in una frazione di secondo integrare quella nota nel sound generale e portarla da qualche altra parte. Non è un errore, davvero... è la vita. Io ci penso come ad una musica spirituale, perché suonare una musica come quella ti dà fiducia in te stesso e nella gente con cui suoni”.

“Live at the Troubadour, 1969”, pubblicato nel 1994, contiene alcuni passaggi che spiegano nei fatti le parole di Tim. Se il lessico di base della sua musica appartiene certamente al rock (o folk-rock), i linguaggi da cui pesca la sua ispirazione sono affatto diversi. In questa registrazione dal vivo (eccellente testimonianza del periodo immediatamente precedente a “Starsailor”) troviamo contemporaneamente una Blue melody suonata come un languido, lento cha-cha-cha, l’occasionale serenità di I had a talk with my woman e solidi riferimenti al jazz, come il piano elettrico di I don’t need it to rain che s’ispira al Davis di “In a silent way”. Anche le parole delle canzoni sono elementi da trattare con un approccio originale. Buckley azzarda un parallelo tra la propria esperienza e quella di John Coltrane, alla ricerca del suono universale: “sentivo Coltrane vicino come nessun altro. Anch’io ho cominciato a cantare in lingue differenti, swahili, per esempio, proprio perché suona meglio. Uno strumentista può essere compreso in qualunque modo, ma la gente è condizionata ad ascoltare solo parole uscire da una bocca... io mi sto orientando verso parole con un grande suono. Se facessi a modo mio, le parole non avrebbero significato. Sarebbe uno shock per la gente. Sarebbe salutare”. Magari solo per caso, ma riecheggia in queste righe la beffarda considerazione del Gran Maestro Francesco Zappa, che ebbe a sentenziare “nel rock’n’roll le parole delle canzoni non sono altro che rumori intonati alla musica”: d’altra parte, il Maestro avrebbe gradito (e forse gradì) ascoltare Tim che affermava “i suoni sono il mio business. Se usata bene, qualsiasi cosa è musica”.

Continua per l'ultima parte...

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