giovedì 13 dicembre 2012

Tim Buckley - Parte 1a


Tim Buckley
Monografia - Parte 1a

Quando un artista è finalmente passato attraverso tutta questa confusione, allora si può ascoltare una voce pura. Noi siamo abituati ad imitare queste voci quando ormai se ne sono andate.
(Tim Buckley, tre mesi prima di morire)

L’ho visto crescere, da ragazzino con occhi da Bambi, balbettando poesiole su cuoricini di carta e Valentine, fino a diventare un rocker coi capelli al vento, poi un genio mattoide dell’improvvisazione vocale che spazzava via chiunque altro, poi alla fine un volgare, eccitante ballerino da roadhouse che iniettava vapore, sangue e linfa in un rhythm & blues di cui nessuno si curava.”
(Lee Underwood, chitarrista, nell’orazione funebre per l’amico Tim Buckley)

Non riusciva ad andarsene, non ci riusciva e non ci riusciva e poi – come una qualsiasi stupida creatura che all’improvviso smette di fare una cosa e comincia a farne un’altra e tu non riesci a capire se la sua vita sia il massimo della libertà o ne sia completamente priva – riuscì e se ne andò.
(Phlip Roth, Il teatro di Sabbath)

Perché qualche riflettore, ciclicamente, puntasse la propria luce su Tim Buckley, sono state necessarie due morti ed un tentativo di resurrezione.
La prima scomparsa fu ovviamente la sua, il 29 giugno 1975, a 28 anni.
La seconda fu quella del figlio, Jeff, il 29 maggio 1997, a 30 anni.
Il timido tentativo di resurrezione riguardò invece la sua musica, quando per un breve istante, nel 1983, qualcuno tra i non addetti ai lavori si chiese chi fosse quel T. Buckley la cui firma come autore compariva sotto il titolo di una canzone che, nonostante fosse stata partorita in una piccola clinica, lontano dai fasti dei reparti di ostetricia dei più grandi ospedali discografici, crebbe discretamente robusta e si fece ascoltare da un po’ di gente.
La melodia, malinconica ed indimenticabile, era quella di Song to the siren, che This Mortal Coil interpretavano con grande rispetto dell’originale: ma, finito l’effimero successo, la curiosità per quella T puntata svanì, e così anche la possibilità di ri-scoprire l’affascinante e sofferto viaggio di uno dei più audaci e talentuosi esploratori del suono negli anni ‘60/’70 e non solo.
Buckley è stato, in vita, amato, desiderato, poi snobbato e dimenticato ed infine, probabilmente, anche compatito. Era giovanissimo e bello, ricco di fascino (“seductive charm”, si diceva di lui) e straripante di talento, curiosità e avidità d’imparare ed esprimersi.
La sua vita era la sua musica e questo l’ha reso capace di inoltrarsi in regioni inesplorate ad una velocità stupefacente: forse nessuno, nel piccolo mondo del rock, è stato così rapido a passare dal genuino candore dell’adolescenza ad un linguaggio musicale così evoluto, magmatico e ricco.
La metafora della cometa, velocissima e bruciante, è per il Nostro (o per parte della sua vita) tanto abusata quanto azzeccata.

Timothy Charles Buckley III nasce il giorno di s. Valentino del 1947, vicino a New York. Dalla costa est la famiglia si trasferisce in California al principio degli anni ‘60.
Ad Anaheim, racconterà Tim, passa molti pomeriggi ad impegnare la sua voce in insoliti duelli sonori con i clacson degli autobus. L’idea di estendere i limiti estremi delle sue corde vocali gli sarebbe venuta dopo aver ascoltato gli affascinanti ed opposti timbri di una tromba e di un sax baritono, in qualche disco di famiglia.
In casa Buckley si passa da Billie Holiday e Bessie Smith, care alla nonna, all’ammirazione della madre per Frank Sinatra ed il jazz di Nat King Cole e Miles Davis. Però è il country che inizialmente coinvolge maggiormente il ragazzo: l’ascolto di Johnny Cash e Hank Williams lo porta anche a mettere le mani su banjo e chitarra.
A 17 anni tiene già qualche concerto in piccoli clubs, e a sentire Jim Fielder (compagno di liceo e poi bassista di una certa fama soprattutto con Blood Sweat and Tears) a quell’età la sua voce è completamente formata, con un’estensione di 4 ottave (in un diciassettenne...), un’intonazione perfetta ed un controllo totale. Quello che Fielder chiama “un dono di Dio”, quella incredibile, unica voce, accompagnerà Buckley fino al suo ultimo giorno: anche nei periodi peggiori, nei dischi incisi con poca convinzione, nella musica che a volte aleggiava attorno a lui come un fastidioso brusio, la sua voce ed il suo canto non saranno mai meno che perfetti.
Princess Ramona and the Cherokee Riders è l’improbabile nome del primo gruppo con cui si esibisce, in un repertorio country & western. Poi il raggiungimento dei 18 anni segna un cambio di direzione musicale, con la creazione contemporanea di due bands, i Bohemians con cui esegue covers di famosi brani pop e gli Harlequin Three, orientati verso un’eccentrica miscela di folk e poesia grazie anche alla presenza dell’amico poeta Larry Beckett, che lavorerà con lui per diverso tempo.
Dopo aver optato per gli Arlecchini Buckley comincia sempre più spesso a veder associato il proprio nome a quelli di altri due giovani personaggi come Steve Noonan e Jackson Browne (futuro soft-rocker di gran successo), grazie alla stampa musicale che vagheggia di una (inesistente) scuola cantautorale di Orange county. Comunque sia il nome di Tim comincia a circolare per Los Angeles trascinandosi appresso lusinghieri commenti: il già citato Jim Fielder presenta così il ragazzo a Jimmy Carl Black, batterista delle Mothers of Invention, che a sua volta lo fa incontrare con Herb Cohen, manager di Zappa e di Captain Beefheart. 
Cohen è immediatamente colpito dalle sue doti e spedisce un demo tape a Jac Holzman, proprietario della Elektra records, proponendogli di metterlo sotto contratto: la strada per il primo disco è spianata.

 “Tim Buckley” esce nel 1966 ed è il punto di partenza per giudicare l’impressionante evoluzione della sua musica. A cominciare dalla voce, che appare davvero come un dono del Signore.
Come spiegare altrimenti in un diciannovenne un timbro tanto bello quanto apparentemente maturo? Profondo, capace di mutare senza alcuna fatica in tenore o baritono, il colore della sua voce affascina immediatamente, già abbastanza lontano dai modelli che il rock può offrire in quel momento. La musica è legittima figlia di quel periodo e di quel genere, un folk addomesticato con il suono tipico del tentativo di raffinare canzoni originariamente voce-e-chitarra, e con pesanti interventi in studio.
Del medesimo eccesso di produzione soffrirà anche l’LP successivo, “Goodbye and hello”, del 1967, che avvicina ancora di più Tim al suono folk - rock.
Il produttore è Jerry Yester, che forse per un attimo accarezza l’idea di trasformare Buckley in qualcosa di simile ad un romantico e sofisticato menestrello per teenagers (Yester è anche produttore dei Lovin’ Spoonful). L’operazione non riesce, il disco soffre in ogni caso di appesantimenti ed inutili orpelli (le partiture per orchestra della title track, ad esempio), anche se alcune canzoni sono già sufficienti per valutare la rapida maturazione di Buckley. Once I was, tenera ballata con rapide impennate della voce, come diventerà suo stile da lì in poi, Morning glory, sulla stessa lunghezza d’onda, ripresa inoltre dai Blood Sweat and Tears dell’amico Fielder. Un brano su tutti, però, mette a nudo l’anima del ventenne Tim, il filo che collega la musica e la vita, che per lui non avranno mai significati separati. I never asked to be your mountain è una lettera alla moglie, Mary Guilbert, che gli ha chiesto di fare un passo indietro dai territori della musica per dedicarsi al bambino nato da poco, Jeffrey Scott detto Jeff. La risposta del padre è “non ho mai chiesto di essere / la tua montagna”: non sono in grado, non posso, non voglio. Ed è una risposta urlata a gran voce su un ritmo concitato, un lungo testo su cui il canto di Buckley s’arrampica cominciando a percorrere quei sentieri impervi e diversi che ritroveremo sempre più spesso, divenuti intricati come una giungla.
Questo mancato rapporto col primo figlio (l’incontrerà anni dopo, una volta sola, quando Jeff avrà otto anni) peserà in realtà su Tim per lungo tempo, e al bambino dedicherà una splendida canzone piena di rimpianto, Dream letter, le cui strofe suoneranno addolorate al punto da sembrare patetiche: “E’ un soldato o un sognatore? / E’ il bravo ometto di mamma? / Ti aiuta quando può? / O chiede di me?”.
E’, in ogni caso, la propria vita messa in versi e cantata, con quel canto che non nasconde nulla, che di Tim proietta anima e sentimenti con una sincerità percepibile ed a volte disarmante.
Come sei quello che mangi, così sei quello che canti.

Continua...

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