Tim Buckley
Monografia - Parte 1a
“Quando un artista è finalmente passato attraverso tutta
questa confusione, allora si può ascoltare una voce pura. Noi siamo abituati ad
imitare queste voci quando ormai se ne sono andate.”
(Tim Buckley, tre mesi prima di morire)
“L’ho visto crescere, da ragazzino con occhi da Bambi,
balbettando poesiole su cuoricini di carta e Valentine, fino a diventare un
rocker coi capelli al vento, poi un genio mattoide dell’improvvisazione vocale
che spazzava via chiunque altro, poi alla fine un volgare, eccitante ballerino
da roadhouse che iniettava vapore, sangue e linfa in un rhythm & blues di
cui nessuno si curava.”
(Lee Underwood, chitarrista, nell’orazione funebre per
l’amico Tim Buckley)
“Non riusciva ad andarsene, non ci riusciva e non ci riusciva
e poi – come una qualsiasi stupida creatura che all’improvviso smette di fare
una cosa e comincia a farne un’altra e tu non riesci a capire se la sua vita
sia il massimo della libertà o ne sia completamente priva – riuscì e se ne
andò.”
(Phlip Roth, Il teatro di Sabbath)
Perché qualche riflettore, ciclicamente, puntasse la propria
luce su Tim Buckley, sono state necessarie due morti ed un tentativo di
resurrezione.
La prima scomparsa fu ovviamente la sua, il 29 giugno 1975, a 28 anni.
La seconda fu quella del figlio, Jeff, il 29 maggio 1997, a 30 anni.
Il timido tentativo di resurrezione riguardò invece la sua
musica, quando per un breve istante, nel 1983, qualcuno tra i non addetti ai
lavori si chiese chi fosse quel T. Buckley la cui firma come autore compariva
sotto il titolo di una canzone che, nonostante fosse stata partorita in una
piccola clinica, lontano dai fasti dei reparti di ostetricia dei più grandi
ospedali discografici, crebbe discretamente robusta e si fece ascoltare da un
po’ di gente.
La melodia, malinconica ed indimenticabile, era quella di Song
to the siren, che This Mortal Coil interpretavano con grande rispetto
dell’originale: ma, finito l’effimero successo, la curiosità per quella T
puntata svanì, e così anche la possibilità di ri-scoprire l’affascinante e
sofferto viaggio di uno dei più audaci e talentuosi esploratori del suono negli
anni ‘60/’70 e non solo.
Buckley è stato, in vita, amato, desiderato, poi snobbato e
dimenticato ed infine, probabilmente, anche compatito. Era giovanissimo e
bello, ricco di fascino (“seductive charm”, si diceva di lui) e straripante di
talento, curiosità e avidità d’imparare ed esprimersi.
La sua vita era la sua musica e questo l’ha reso capace di
inoltrarsi in regioni inesplorate ad una velocità stupefacente: forse nessuno,
nel piccolo mondo del rock, è stato così rapido a passare dal genuino candore
dell’adolescenza ad un linguaggio musicale così evoluto, magmatico e ricco.
La metafora della cometa, velocissima e bruciante, è per il
Nostro (o per parte della sua vita) tanto abusata quanto azzeccata.
Timothy Charles Buckley III nasce il giorno di s. Valentino
del 1947, vicino a New York. Dalla costa est la famiglia si trasferisce in
California al principio degli anni ‘60.
Ad Anaheim, racconterà Tim, passa molti pomeriggi ad
impegnare la sua voce in insoliti duelli sonori con i clacson degli autobus.
L’idea di estendere i limiti estremi delle sue corde vocali gli sarebbe venuta
dopo aver ascoltato gli affascinanti ed opposti timbri di una tromba e di un sax
baritono, in qualche disco di famiglia.
In casa Buckley si passa da Billie Holiday e Bessie Smith,
care alla nonna, all’ammirazione della madre per Frank Sinatra ed il jazz di
Nat King Cole e Miles Davis. Però è il country che inizialmente coinvolge maggiormente
il ragazzo: l’ascolto di Johnny Cash e Hank Williams lo porta anche a mettere
le mani su banjo e chitarra.
A 17 anni tiene già qualche concerto in piccoli clubs, e a
sentire Jim Fielder (compagno di liceo e poi bassista di una certa fama
soprattutto con Blood Sweat and Tears) a quell’età la sua voce è completamente
formata, con un’estensione di 4 ottave (in un diciassettenne...),
un’intonazione perfetta ed un controllo totale. Quello che Fielder chiama “un
dono di Dio”, quella incredibile, unica voce, accompagnerà Buckley fino al suo
ultimo giorno: anche nei periodi peggiori, nei dischi incisi con poca
convinzione, nella musica che a volte aleggiava attorno a lui come un
fastidioso brusio, la sua voce ed il suo canto non saranno mai meno che perfetti.
Princess Ramona and the Cherokee Riders è l’improbabile nome
del primo gruppo con cui si esibisce, in un repertorio country & western.
Poi il raggiungimento dei 18 anni segna un cambio di direzione musicale, con la
creazione contemporanea di due bands, i Bohemians con cui esegue covers di
famosi brani pop e gli Harlequin Three, orientati verso un’eccentrica miscela
di folk e poesia grazie anche alla presenza dell’amico poeta Larry Beckett, che
lavorerà con lui per diverso tempo.
Dopo aver optato per gli Arlecchini Buckley comincia sempre
più spesso a veder associato il proprio nome a quelli di altri due giovani
personaggi come Steve Noonan e Jackson Browne (futuro soft-rocker di gran
successo), grazie alla stampa musicale che vagheggia di una (inesistente)
scuola cantautorale di Orange county. Comunque sia il nome di Tim comincia a
circolare per Los Angeles trascinandosi appresso lusinghieri commenti: il già
citato Jim Fielder presenta così il ragazzo a Jimmy Carl Black, batterista
delle Mothers of Invention, che a sua volta lo fa incontrare con Herb Cohen,
manager di Zappa e di Captain Beefheart.
Cohen è immediatamente colpito dalle
sue doti e spedisce un demo tape a Jac Holzman, proprietario della Elektra
records, proponendogli di metterlo sotto contratto: la strada per il primo
disco è spianata.
“Tim Buckley” esce
nel 1966 ed è il punto di partenza per giudicare l’impressionante evoluzione
della sua musica. A cominciare dalla voce, che appare davvero come un dono del
Signore.
Come spiegare altrimenti in un diciannovenne un timbro tanto
bello quanto apparentemente maturo? Profondo, capace di mutare senza alcuna
fatica in tenore o baritono, il colore della sua voce affascina immediatamente,
già abbastanza lontano dai modelli che il rock può offrire in quel momento. La
musica è legittima figlia di quel periodo e di quel genere, un folk
addomesticato con il suono tipico del tentativo di raffinare canzoni
originariamente voce-e-chitarra, e con pesanti interventi in studio.
Del medesimo eccesso di produzione soffrirà anche l’LP
successivo, “Goodbye and hello”, del 1967, che avvicina ancora di più Tim al
suono folk - rock.
Il produttore è Jerry Yester, che forse per un attimo
accarezza l’idea di trasformare Buckley in qualcosa di simile ad un romantico e
sofisticato menestrello per teenagers (Yester è anche produttore dei Lovin’
Spoonful). L’operazione non riesce, il disco soffre in ogni caso di
appesantimenti ed inutili orpelli (le partiture per orchestra della title
track, ad esempio), anche se alcune canzoni sono già sufficienti per valutare
la rapida maturazione di Buckley. Once I was, tenera ballata con rapide
impennate della voce, come diventerà suo stile da lì in poi, Morning glory,
sulla stessa lunghezza d’onda, ripresa inoltre dai Blood Sweat and Tears dell’amico
Fielder. Un brano su tutti, però, mette a nudo l’anima del ventenne Tim, il
filo che collega la musica e la vita, che per lui non avranno mai significati
separati. I never asked to be your mountain è una lettera alla moglie,
Mary Guilbert, che gli ha chiesto di fare un passo indietro dai territori della
musica per dedicarsi al bambino nato da poco, Jeffrey Scott detto Jeff. La risposta del padre è “non ho mai chiesto di essere / la
tua montagna”: non sono in grado, non posso, non voglio. Ed è una risposta
urlata a gran voce su un ritmo concitato, un lungo testo su cui il canto di
Buckley s’arrampica cominciando a percorrere quei sentieri impervi e diversi
che ritroveremo sempre più spesso, divenuti intricati come una giungla.
Questo mancato rapporto col primo figlio (l’incontrerà anni
dopo, una volta sola, quando Jeff avrà otto anni) peserà in realtà su Tim per
lungo tempo, e al bambino dedicherà una splendida canzone piena di rimpianto, Dream
letter, le cui strofe suoneranno addolorate al punto da sembrare patetiche:
“E’ un soldato o un sognatore? / E’ il bravo ometto di mamma? / Ti aiuta quando
può? / O chiede di me?”.
E’, in ogni caso, la propria vita messa in versi e cantata,
con quel canto che non nasconde nulla, che di Tim proietta anima e sentimenti
con una sincerità percepibile ed a volte disarmante.
Come sei quello che mangi, così sei quello che canti.
Continua...
Nessun commento:
Posta un commento