domenica 16 dicembre 2012

Tim Buckley - Parte 4a (conclusione)


Tim Buckley
Monografia - Parte 4a (conclusione)

Per la terza volta nel giro di un anno esce un disco a suo nome. La frenesia con cui elabora le sue idee ha qualcosa di mistico, una specie di devozione assoluta: Lilian Roxon, giornalista, riconosce che “non c’è ancora un nome per i luoghi dove può recarsi la sua voce”.
“Starsailor” è una di quelle opere che portano un marchio. Che esercitano un fascino od un’influenza particolari, immerse in un aura densa dei segni del proprio tempo ma contemporaneamente senza età, quasi come se chi le ha composte avesse compiuto un’impresa di natura magica al di là di ogni progetto o pianificazione razionale.
“Starsailor” è anche di più: opus magnum di Buckley, questo disco è il culmine di una ricerca che ha pochissimi eguali nella giovane storia di questa musica. Avanguardia, jazz, rock, canzone d’autore, sperimentazione estrema: Tim ha da tempo cuore, cervello e mani sulla stessa linea. Che sia lo chansonnier di Moulin rouge o che ululi sul finale di Healing festival, il risultato è lo stesso: il suo canto è perfetto e la musica gli aderisce come una seconda pelle. Ma “Starsailor” è anche un disco non facile, ed un suicidio commerciale.
Buckley è accompagnato da Underwood, da John Balkin,  Buzz e Bunk Gardner (tre Zappa – men, basso, tromba e sassofono) e da Maury Baker alla batteria. Anche se il gruppo è poco più di un piccolo combo, in qualche passaggio l’accavallarsi di tastiere, fiati, chitarre e tutto il resto genera un magma sonoro bollente, pulsante, che lascia sfuggire qua e là strappi e crescendi collettivi. La voce di Tim esce dalla lava, l’accarezza, si libra in alto rimanendovi per un’eternità, poi si tuffa, ripiomba nel liquido fumante e nuota insieme agli altri prima di lanciarsi di nuovo in verticale.
La sua performance lascia senza parole: difficile sentire cose simili da qualsiasi parte ci si rivolga.
Non tanto per il “semplice” virtuosismo, quanto per la vivida possibilità d’immaginare questo ragazzo di 23 anni come una nuda voce, una vibrazione pura, un’esistenza che si rivela in pieno quando può farsi canto e piegare ogni nota a proprio piacimento: come sempre c’è identificazione totale tra vita e musica, e con un pizzico d’ironia questo lavoro è anche quello che più ricorda le sonorità del rock.
La Gibson acustica non c’è più, il suono è molto elettrico, teso. Come here woman e Jungle fire hanno struttura simile, che si sviluppa da un apparente caos strumentale fino ad una parte ritmicamente accentuata, con riff decisi e sincopati. I woke up richiama la matrice di “Lorca”, un tappeto sonoro ricco di colori a sostenere il lirismo di una bellissima melodia.
Monterey è un impressionante tour de force vocale: col solo accompagnamento di chitarra e batteria Tim pare strapparsi le corde vocali, pigliando intervalli impossibili e scorrazzando tra falsetto e raucedine da orco con facilità disarmante, la stessa con cui affianca o domina il furioso soffiare dei fiati in Healing festival e Down the borderline.
Moulin rouge (da grande crooner) e Song to the siren (il brano più famoso, voce e chitarra per una ballata da brivido) rallentano il ritmo e portano a quello che potremmo definire scettro e corona, un punto d’arrivo nella ricerca vocale di Buckley: Starsailor, 16 voci sovraincise che s’inseguono, si toccano per poi separarsi di nuovo e riprendere a viaggiare. Voci che ascendono al cielo, che ruotano in cerchio e scompaiono lontano, una impressione di movimento perpetuo, di leggerezza, di annullamento della forza di gravità. Voci che un attimo prima erano materia concreta, grugniti ed urla brutali, che si trasfigurano nell’allegoria eterea di un viaggio tra psiche e spazio esterno: “dietro ai soli io parlo / e le orbite si frantumano”.
 Parte della critica tratta “Starsailor” per quello che è, un capolavoro assoluto (l’allora rivista-guru del libero pensiero musicale, DOWN BEAT, gli assegna le famose cinque stelle, come a dire il meglio del meglio), mentre altri lo bollano come pretenzioso, invitando il cantante a rinverdire il passato da folk singer. Ma in ogni caso solo i giornalisti sono divisi sul giudizio: infatti, il disco si rivela un completo disastro commerciale.
Tim è furioso, amareggiato, frustrato. Le esibizioni dal vivo, spesso completamente improvvisate, si fanno sempre più rare, dato che nessuno vuole promuovere una musica così ostica (per cui ci saranno però le congratulazioni di Frank Zappa, di solito parco di complimenti: “it sounds really good”). Nemmeno un gruppo successivo, formato con Baker, Balkin, Glen Ferris al trombone ed Emmett Chapman (inventore dello stick), incontra maggior fortuna.
Motivo: la quasi totale mancanza d’ingaggi. Buckley tiene qualche concerto lontano da Los Angeles, in solitudine, ma poi tutto finisce lì. I tentativi di portare in giro la propria musica ricevono la medesima risposta: “suona rock’n’roll, ragazzo”.
Underwood racconta che, una volta finiti i soldi, il “ragazzo” si sente rispondere “non puoi mangiarti le cinque stelle di DOWN BEAT. E’ meglio che impari a guidare un camion”.
Non male, per uno che ha ricevuto grandi lodi persino dall’accademico ambiente della musica lirica.
 Saranno due anni terribili, durante i quali Tim proverà un assoluto senso d’impotenza.
Non fa nulla. Non riesce a far nulla. Quando ne ha la possibilità si buca, e basta.
Alla fine qualcosa dentro di lui si spezza. Oppure glielo spezzano. Vuole tornare al suo lavoro, alla sua ragione di vita. Ha bisogno di denaro. Ha bisogno di un pubblico, di chi l’ascolti.
Alla fine di quei due anni ritorna, ed è un altro scriverne: perché l’uomo che rimette piede sulle scene ed in sala di registrazione (“Greetings from L.A.”, nuovo album), anche se è come prima un eccezionale interprete, si fa accompagnare da una musica lievemente ottusa ed un po’ fracassona.
Una sterzata talmente brusca che vien da pensare ad un colossale scherzo, uno sberleffo rivolto al mondo, una maniera per dire “volevate questa roba? Eccovela. Farò quel che devo”.
Così che “Greetings...” contiene una base musicale greve, un rock-blues appesantito dal funky di una sezione ritmica che ignora i mezzi toni. I testi sono infarciti di pesanti allusioni sessuali, e le sue dichiarazioni sull’argomento (“Jagger e Morrison sono sex symbol, ma non hanno mai scritto niente di veramente esplicito sul sesso. Ora voglio farlo io”) fanno mestamente sorridere, soprattutto pensando a quando la sensualità nasceva spontaneamente dal suo canto senza bisogno di sotterfugi.
E’ difficile pensare agli ultimi lavori di Buckley (“Greetings...”, poi “Sefronia” e “Look at the fool”), tra il ‘73 ed il ‘75, come alla prosecuzione del viaggio interrotto nel 1971. Certo non è tutto da buttare; in alcuni momenti la personalità di Tim riesce a tenere in piedi arrangiamenti inadeguati, col risultato di produrre anche brani notevoli come Sweet surrender o Who could deny you.
Talento e qualità vocali intatte, quindi, ma niente è come prima. Negli anni delle ultime incisioni si ripulisce dalla droga, riprende a fare pratica e conduce una vita sostanzialmente sana; su disco e dal vivo il suo modo di cantare è sempre brillante, con il suo stile vertiginoso e la passione che riesce ad infondere in ogni parola. Però niente è come prima.
In una lettera del 13 settembre 1974 scrive: “cosa c’è da dire? Sei quello che sei, conosci quello che conosci, e non ci sono parole per la solitudine, nera, amara, dolente solitudine, che rosicchia le radici del silenzio nella notte...”.
Tim Buckley adesso si comporta da persona (da musicista) “ragionevole”, ma probabilmente quello che deve fare lo fa senza gioia. E si sente solo, ed isolato.
 Nella notte tra il 28 ed il 29 giugno 1975 Tim rientra da Dallas. Prima di recarsi a casa si ferma da un amico dove sniffa eroina, per sfida o per errore: in un organismo relativamente pulito come il suo l’effetto è letale. Nel giro di poco si spegne.
Tim Buckley muore a 28 anni, proprietario unicamente della sua chitarra e del suo amplificatore.
 “Buckley ha fatto per il canto quello che hanno fatto Hendrix per la chitarra e Coltrane per il sax”.
“Molto dopo la sua morte, ho capito che scrisse poche canzoni che non contenessero la parola casa. Era come se si sentisse un vagabondo, e nulla poteva rincuorarlo”.
“Come autore di canzoni era semplicemente magnifico. Come cantante, beh, nessuno era in grado di fare le stesse cose, nessuno”.
“Era un genio in tutti i sensi. Dovrebbe essere messo sullo stesso livello di Edith Piaf e Miles Davis”.
“I quattro cavalieri di una particolare apocalisse: Hendrix, Joplin, Morrison e Buckley”.
Da Larry Beckett, Hal Wilner, Danny Thompson ed altri.Tim non ha lasciato diretti eredi musicali. Troppo unico e personale, il suo talento. Anche se si può condividere con la sua figura un patrimonio che è quello della curiosità, del desiderio di scoprire e collegare tra loro mondi anche apparentemente lontani, della ricerca interiore.
Certi sperimentatori sono una compagnia che avrebbe forse gradito; Captain Beefheart, lo straordinario Scott Walker, l’estrema Diamanda Galas.
Però, personalmente, darei non so cosa per scoprire un impossibile nastro inedito, inciso in una sola notte a Cucamonga, dove Buckley diretto dal Maestro Zappa si diletta in chissà quali follie.
 Quella di Jeff è una storia più breve, ma quasi altrettanto preziosa e meritevole di una cornice propria. Una cosa è certa: che somiglianza fisica e vicinanza artistica erano impressionanti, e se non si può parlare di eredità in senso stretto è vero che certe similitudini suscitano meravigliato stupore.
Jeff Buckley morì 22 anni dopo suo padre, annegato nell’acqua di un fiume. La stessa acqua che circondava tutt’intorno l’amore meravigliosamente cantato in Song to the siren.
Per entrambi, così tanto da dire e così poco tempo per poterlo fare.


2 commenti:

  1. Molto bella mon cheri:) Ne hai altre nel cassetto? sono pronta a leggere.
    Sgnà

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  2. altre due. tra poco arrivano.
    grazzzzzzie!
    F.

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