Le tre monografie che aggiungerò nei prossimi giorni su questo blog sono state pubblicate
nell’arco di poco più di un anno, tra la fine del 1998 e l’inizio del 2000,
dalla rivista musicale Tempi Dispari.
Due di esse riguardano straordinari personaggi che all’epoca
avevano purtroppo già abbandonato questa valle di lacrime, Tim Buckley e Kurt
Cobain. L’altra riguarda gli XTC, gruppo attivo dalla fine degli anni ’70 ma
ben presto relegato ai trafiletti più brevi delle cronache musicali.
Mentre le rileggevo mi rendevo conto di quanto poco sia cambiato,
nella sua natura essenziale, il rapporto tra musica ed industria, compresa
l’inevitabile presenza della “variabile” mass-media.
Basterebbe aggiornare da un punto di vista tecnologico il
linguaggio (aggiungendo accenni a CD-DVD-I Pod e supporti vari, a YouTube, alla
musica diffusa e venduta su Internet, alla pratica del file sharing, eccetera)
per rendere quasi perfettamente attuale la sceneggiatura di un dramma come
quello di Buckley, schiacciato da un apparato mercantile-discografico incapace
di riconoscere e proteggere l’autentico genio. O di una farsa come quella degli
XTC, probabilmente i massimi autori di pop da molto tempo a questa parte, ma
increduli anni fa nel sentirsi chiedere dai loro discografici se non era
possibile riciclarsi come gruppo di hard rock (per quanto riguarda Cobain,
invece, basterebbe pensare a come il mondo dei media e dello show business ha
impattato la sua vita, a quello che oggi sorbiamo senza un lamento chiamandolo
“informazione”).
Il mercato della musica è veramente strano: buffo, persino.
Mentre le tecnologie informatiche permettono da molto tempo un uso a 360°,
diciamo così, di pratiche come campionamenti ed estrazioni di frammenti da
altri brani (producendo parodie, citazioni esatte, singole cellule ritmiche e via
dicendo), le politiche sul diritto d’autore fanno fatica a staccarsi da logiche
degli anni del grammofono. Per non dire delle lagne sulle masterizzazioni
pirata, come se fosse invenzione recente l’idea di registrare un disco di
proprietà di un amico per evitare di acquistarlo.
Al tempo stesso, ricordo che tre anni fa mentre rileggevo una
prima volta queste monografie per correggerle, assegnavano i Grammy 2008 e
vinceva un signore che allora andava per i 61 anni, Robert Plant, che dichiarava
col premio ancora in mano “Ai vecchi tempi avremmo etichettato questa serata
come commerciale, ma in fondo è un buon modo per passare una domenica”. E il
suo “Raising Sand”, firmato con Alison Krauss, era prodotto e suonato con T-Bone
Burnett e Marc Ribot, non esattamente ragazzini di primo pelo.
Strano, no? I Grammies sono una delle massime espressioni
autocelebrative del music business (non a caso nel 2009 erano ospiti previsti
nella serata i soliti Justin Timberlake, Rihanna, Boyz II Men e via
glamoureggiando). Business che notoriamente, per dirne una, considera
economicamente appetibile soprattutto la fascia d’età tra i 12 ed i 20-22 anni.
Fascia i cui interessi, presumibilmente, non prevedevano e non prevedono
l’acquisto di un cd inciso dall’ex cantante degli Zeppelin e da una stella del
country.
Quindi strano, sì, un po’ strano. Soprattutto perché allora c’avevano azzeccato in pieno. Il
disco è magnifico...
Buckley ha graffiato la musica del suo tempo da una
traiettoria esterna, ellittica.
XTC hanno scavato dall’interno del moloch cercando uno
spiraglio di luce.
Cobain ha demolito, schiacciato, triturato, rendendo
impossibile l’impassibilità.
Tutti quanti hanno reso la musica per un breve tratto di
tempo un poco più vitale ed autentica.
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