mercoledì 12 dicembre 2012

Monografie, preambolo


Le tre monografie che aggiungerò nei prossimi giorni su questo blog sono state pubblicate nell’arco di poco più di un anno, tra la fine del 1998 e l’inizio del 2000, dalla rivista musicale Tempi Dispari.
Due di esse riguardano straordinari personaggi che all’epoca avevano purtroppo già abbandonato questa valle di lacrime, Tim Buckley e Kurt Cobain. L’altra riguarda gli XTC, gruppo attivo dalla fine degli anni ’70 ma ben presto relegato ai trafiletti più brevi delle cronache musicali.

Mentre le rileggevo mi rendevo conto di quanto poco sia cambiato, nella sua natura essenziale, il rapporto tra musica ed industria, compresa l’inevitabile presenza della “variabile” mass-media.
Basterebbe aggiornare da un punto di vista tecnologico il linguaggio (aggiungendo accenni a CD-DVD-I Pod e supporti vari, a YouTube, alla musica diffusa e venduta su Internet, alla pratica del file sharing, eccetera) per rendere quasi perfettamente attuale la sceneggiatura di un dramma come quello di Buckley, schiacciato da un apparato mercantile-discografico incapace di riconoscere e proteggere l’autentico genio. O di una farsa come quella degli XTC, probabilmente i massimi autori di pop da molto tempo a questa parte, ma increduli anni fa nel sentirsi chiedere dai loro discografici se non era possibile riciclarsi come gruppo di hard rock (per quanto riguarda Cobain, invece, basterebbe pensare a come il mondo dei media e dello show business ha impattato la sua vita, a quello che oggi sorbiamo senza un lamento chiamandolo “informazione”).

Il mercato della musica è veramente strano: buffo, persino. Mentre le tecnologie informatiche permettono da molto tempo un uso a 360°, diciamo così, di pratiche come campionamenti ed estrazioni di frammenti da altri brani (producendo parodie, citazioni esatte, singole cellule ritmiche e via dicendo), le politiche sul diritto d’autore fanno fatica a staccarsi da logiche degli anni del grammofono. Per non dire delle lagne sulle masterizzazioni pirata, come se fosse invenzione recente l’idea di registrare un disco di proprietà di un amico per evitare di acquistarlo.
Al tempo stesso, ricordo che tre anni fa mentre rileggevo una prima volta queste monografie per correggerle, assegnavano i Grammy 2008 e vinceva un signore che allora andava per i 61 anni, Robert Plant, che dichiarava col premio ancora in mano “Ai vecchi tempi avremmo etichettato questa serata come commerciale, ma in fondo è un buon modo per passare una domenica”. E il suo “Raising Sand”, firmato con Alison Krauss, era prodotto e suonato con T-Bone Burnett e Marc Ribot, non esattamente ragazzini di primo pelo.
Strano, no? I Grammies sono una delle massime espressioni autocelebrative del music business (non a caso nel 2009 erano ospiti previsti nella serata i soliti Justin Timberlake, Rihanna, Boyz II Men e via glamoureggiando). Business che notoriamente, per dirne una, considera economicamente appetibile soprattutto la fascia d’età tra i 12 ed i 20-22 anni. Fascia i cui interessi, presumibilmente, non prevedevano e non prevedono l’acquisto di un cd inciso dall’ex cantante degli Zeppelin e da una stella del country.
Quindi strano, sì, un po’ strano. Soprattutto perché allora c’avevano azzeccato in pieno. Il disco è magnifico...

Buckley ha graffiato la musica del suo tempo da una traiettoria esterna, ellittica.
XTC hanno scavato dall’interno del moloch cercando uno spiraglio di luce.
Cobain ha demolito, schiacciato, triturato, rendendo impossibile l’impassibilità.
Tutti quanti hanno reso la musica per un breve tratto di tempo un poco più vitale ed autentica.

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