Kurt Cobain
Monografia - Parte 2a
Aberdeen, 200 chilometri circa a sud di Seattle, è la città
in cui cresce Kurt Cobain, sballottato tra i genitori divorziati ed il
parentado che lo ospita a volte per lunghi periodi. Finito il liceo, con il
chiodo fisso del rock’n’roll come irrinunciabile strada per il proprio futuro e
quello del punk come condizione e stile di vita (“punk significa libertà
musicale. E’ dire, fare e suonare ciò che ti pare”, KC), inizia a fare e
disfare gruppi fino all’incontro con Krist Novoselic, che diventerà suo amico e
bassista fino alla fine dell’avventura Nirvana. Il primo vero concerto si tiene
con il nome di Skid Row, nel 1987, quando Kurt ha 20 anni; il nome muterà più
volte come del resto la figura del batterista, che in quella fase è Aaron
Burckhard. Uno dei concerti successivi viene registrato e dalla scaletta si
deduce che buona parte delle composizioni del futuro primo disco, “Bleach”, è
già nella testa di Cobain. Nel 1988, con il nome di Ted Ed Fred e Dale Crover
alla batteria, il gruppo registra il primo provino in studio, al Reciprocal
Recording Studios. Jack Endino, il proprietario, ne rimane favorevolmente
colpito a fa ascoltare il demo a Johnatan Poneman, uno dei fondatori della Sub
Pop. Attorno al mese di giugno Cobain e Novoselic decidono in via definitiva
per il nome Nirvana (“per il dizionario Webster significa libertà dal dolore,
dalle sofferenze del mondo esterno. E’ quanto c’è di più vicino alla mia
definizione di punk rock”, KC), si assestano con la scelta del batterista Chad
Channing e finalmente entrano in studio per incidere il primo singolo Love
buzz.
La Sub Pop inaugura con questo 45 giri una nuova serie,
Singles Club, una forma di abbonamento cha dà il diritto all’acquirente di
avere in anteprima tutti singoli dei gruppi chiamati a registrare per la label.
Comincia così a crearsi attorno al trio una certa attenzione, destinata a
crescere grazie anche al successo delle esibizioni dal vivo. Il loro livello
musicale migliora, le canzoni ora valgono abbastanza da poter essere pubblicate
su un album.
Quando esce “Bleach”, nel 1989, i Nirvana sono già una
piccola promessa nel mondo dell’underground americano. Tra giugno e luglio
partono per un tour che tocca circa una ventina di città in tutti gli States,
mentre alcune radio cominciano a programmare i loro brani. L’effetto traino
funziona e nei concerti si registra progressivamente un aumento del pubblico. A
tutti gli effetti, i Nirvana sono ancora e soprattutto una live-band, un gruppo
che funziona in primo luogo sul palcoscenico. Cobain, in omaggio all’estetica
punk, si preoccupa di sfasciare una chitarra alla fine di ogni esibizione, di
solito un modello da poco prezzo appositamente acquistato.
Ad essere chiari, “Bleach” non è un gran disco. E’ quasi un
tipico prodotto di genere, un lavoro che testimonia la contemporanea passione
verso il metal ed il punk: aggressività adolescenziale, suoni sporchi,
monolitismo ritmico, canto urlato. In un momento in cui il cosiddetto crossover
sta producendo cose degne di nota come Red Hot Chili Peppers o i grandi Jane’s
Addiction di Perry Farrell, spostando l’attenzione verso ritmi più vicini alla
musica nera, “Bleach” rappresenta per la scena post punk americana il limite di
un clichè, limite oltre il quale non si può andare senza rintanarsi nella
nicchia di genere. Quello che salva il disco, costituendo il minuscolo innesco
della successiva, enorme deflagrazione, è il piccolo cuore pop, la sensibilità
ancora semi-nascosta verso la Canzone.
“Bleach” avrebbe senza dubbio guadagnato dall’avere un altro
batterista impegnato nelle registrazioni; il drumming di Chad Channing è
monocorde, con quella grancassa che sembra un metronomo e le braccia di piombo
a marcare passaggi in modo sempre uguale, tradizionalmente heavy. Ma non è
certo colpa sua se l’album appare immaturo, interessante solo quando mostra
squarci e slanci fuori dal genere. E se da una parte non va dimenticato che si
tratta di un’opera prima, dall’altra è probabile che la Sub Pop (etichetta
lungimirante ma in ogni caso legata ad un determinato ambiente) non abbia
certamente spinto per uscire dai canoni di un hard punk che nei tardi ’80 è la
musica che regna nel mondo “alternativo” americano.
Sin dall’apertura, Blew, s’intuisce quale può essere
la formula del disco; la voce di Cobain, in realtà davvero bella, è spesso
completamente nuda, apparentemente priva di trattamenti in fase di
registrazione o missaggio (scritto sul retro di copertina: “registrato da Jack
Endino per 600 dollari”), così che a volte il suo cantato è al limite del
grido, rauco e sopra le righe. Le parti di chitarra, tutte di Kurt (viene
accreditato un secondo chitarrista, Jason Everman, che però non ha inciso
nulla), sono riff pesanti e decisi: gli assoli non brillano per originalità,
destinati più che altro a far fibrillare il suono riempiendo lo spazio con
timbri saturi e distorti. Nella sola School si ascolta qualche accordo
più ricco ed armonioso, fuori dallo standard heavy.
About a girl, però, fa drizzare le orecchie; chi l’ha
scritto ha certo di più, nello spirito, della fanciullesca fissazione per il
rock’n’roll: questo brano ha energia ma anche cuore, è tutto fuorché banale e
reca l’inequivocabile marchio della sincerità. Forse è stata la presenza nel
repertorio dei Nirvana di pezzi come About a girl e l’intuizione di un
possibile grande talento, tormentato ma brillante, ad appassionare Kim Gordon e
Thurston Moore, il 50% dei Sonic Youth. Saranno loro a spingere affinchè il
complesso firmi un contratto con una major, tempo dopo.
Intanto i tre sono sempre più impegnati on the road. Un
altro tour negli USA li porta fino ad ottobre, quando s’imbarcano insieme ai
TAD per un avventuroso giro di concerti in Europa. Arrivati in Inghilterra scoprono
di avere già un certo seguito: il nascente fenomeno del grunge, con il concorso
di un singolo dei Mudhoney ben accolto nelle classifiche alternative inglesi, Superfuzz
Bigmuff, ha fatto loro da apripista. La rivista Melody Maker, proprio
mentre “Bleach” sta per essere pubblicato in Gran Bretagna, scrive di loro:
“Nessun artificio da rockstar, nessuna prospettiva intellettuale, nessun
progetto per la dominazione del mondo. Stiamo parlando di ragazzi che vengono
dalle campagne dello stato di Washington, che vogliono fare del rock, che se
non stessero facendo questo sarebbero a lavorare come commessi di supermarket,
o come taglialegna, o come meccanici”.
La tournèe europea è massacrante; decine di date un po’
dappertutto (Svizzera, Germania, Italia), gli spostamenti effettuati con un
piccolo furgone, le condizioni generali degli spettacoli ed i problemi tecnici
fanno sì che Cobain cominci ad accorgersi di quanto pesi mantenere il ruolo che
poco alla volta si è ritagliato. Lui, che dichiarerà qualche anno dopo “agli
inizi volevo solo fare il chitarrista ritmico, nascosto in secondo piano, solo
per suonare”, è l’epicentro di ogni esibizione, quello che grida e pesta come
un dannato sulle corde, che dà il via al rito distruttivo del finale con le
chitarre sbriciolate e feedback e ronzii che continuano ad echeggiare nell’aria
anche quando gli strumenti ormai tacciono.
Che sia espressione d’insoddisfazione o di estraneità a
tutto, è comunque probabile che il rituale poco c’entri con il semplice
autocompiacimento. Cobain comincia già a dare segni d’insofferenza. L’ulcera
che lo perseguita fin dall’adolescenza si è risvegliata e gli procura dolori
terribili, che sostiene di poter lenire in certi momenti solo con l’eroina:
vero o falso che sia, il ricorso agli stupefacenti sarà uno dei principali
motivi di scandalo e contrasto con il sistema dei mass media.
Quello che a Roma abbandona il palco durante il concerto, si
arrampica su una torre di casse acustiche e vaga come un fantasma per la sala,
è un uomo vicino al limite di rottura: stanchezza fisica e stress psicologici
stanno producendo effetti devastanti in un carattere tutto sommato fragile.
Vivere facendo il musicista rock con quell’intensità e quel trasporto provoca
su di lui una pressione che si rivela insostenibile, e che è destinata e
crescere mostruosamente.
Continua...
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