Buon Natale!
Grazie a tutti coloro che hanno partecipato alla serata The Unbeat Generation il 23 Dicembre!
A breve fotografie e video dell'evento!
martedì 25 dicembre 2012
domenica 16 dicembre 2012
Tim Buckley - Parte 4a (conclusione)
Tim Buckley
Monografia - Parte 4a (conclusione)
Per la terza volta nel giro di un anno esce un disco a suo nome.
La frenesia con cui elabora le sue idee ha qualcosa di mistico, una specie di
devozione assoluta: Lilian Roxon, giornalista, riconosce che “non c’è ancora un
nome per i luoghi dove può recarsi la sua voce”.“Starsailor” è una di quelle opere che portano un marchio. Che esercitano un fascino od un’influenza particolari, immerse in un aura densa dei segni del proprio tempo ma contemporaneamente senza età, quasi come se chi le ha composte avesse compiuto un’impresa di natura magica al di là di ogni progetto o pianificazione razionale.
“Starsailor” è anche di più: opus magnum di Buckley, questo disco è il culmine di una ricerca che ha pochissimi eguali nella giovane storia di questa musica. Avanguardia, jazz, rock, canzone d’autore, sperimentazione estrema: Tim ha da tempo cuore, cervello e mani sulla stessa linea. Che sia lo chansonnier di Moulin rouge o che ululi sul finale di Healing festival, il risultato è lo stesso: il suo canto è perfetto e la musica gli aderisce come una seconda pelle. Ma “Starsailor” è anche un disco non facile, ed un suicidio commerciale.
Buckley è accompagnato da Underwood, da John Balkin, Buzz e Bunk Gardner (tre Zappa – men, basso, tromba e sassofono) e da Maury Baker alla batteria. Anche se il gruppo è poco più di un piccolo combo, in qualche passaggio l’accavallarsi di tastiere, fiati, chitarre e tutto il resto genera un magma sonoro bollente, pulsante, che lascia sfuggire qua e là strappi e crescendi collettivi. La voce di Tim esce dalla lava, l’accarezza, si libra in alto rimanendovi per un’eternità, poi si tuffa, ripiomba nel liquido fumante e nuota insieme agli altri prima di lanciarsi di nuovo in verticale.
La sua performance lascia senza parole: difficile sentire cose simili da qualsiasi parte ci si rivolga.
Non tanto per il “semplice” virtuosismo, quanto per la vivida possibilità d’immaginare questo ragazzo di 23 anni come una nuda voce, una vibrazione pura, un’esistenza che si rivela in pieno quando può farsi canto e piegare ogni nota a proprio piacimento: come sempre c’è identificazione totale tra vita e musica, e con un pizzico d’ironia questo lavoro è anche quello che più ricorda le sonorità del rock.
Monterey è un impressionante tour de force vocale: col solo accompagnamento di chitarra e batteria Tim pare strapparsi le corde vocali, pigliando intervalli impossibili e scorrazzando tra falsetto e raucedine da orco con facilità disarmante, la stessa con cui affianca o domina il furioso soffiare dei fiati in Healing festival e Down the borderline.
Moulin rouge (da grande crooner) e Song to the siren (il brano più famoso, voce e chitarra per una ballata da brivido) rallentano il ritmo e portano a quello che potremmo definire scettro e corona, un punto d’arrivo nella ricerca vocale di Buckley: Starsailor, 16 voci sovraincise che s’inseguono, si toccano per poi separarsi di nuovo e riprendere a viaggiare. Voci che ascendono al cielo, che ruotano in cerchio e scompaiono lontano, una impressione di movimento perpetuo, di leggerezza, di annullamento della forza di gravità. Voci che un attimo prima erano materia concreta, grugniti ed urla brutali, che si trasfigurano nell’allegoria eterea di un viaggio tra psiche e spazio esterno: “dietro ai soli io parlo / e le orbite si frantumano”.
Tim è furioso, amareggiato, frustrato. Le esibizioni dal vivo, spesso completamente improvvisate, si fanno sempre più rare, dato che nessuno vuole promuovere una musica così ostica (per cui ci saranno però le congratulazioni di Frank Zappa, di solito parco di complimenti: “it sounds really good”). Nemmeno un gruppo successivo, formato con Baker, Balkin, Glen Ferris al trombone ed Emmett Chapman (inventore dello stick), incontra maggior fortuna.
Motivo: la quasi totale mancanza d’ingaggi. Buckley tiene qualche concerto lontano da Los Angeles, in solitudine, ma poi tutto finisce lì. I tentativi di portare in giro la propria musica ricevono la medesima risposta: “suona rock’n’roll, ragazzo”.
Underwood racconta che, una volta finiti i soldi, il “ragazzo” si sente rispondere “non puoi mangiarti le cinque stelle di DOWN BEAT. E’ meglio che impari a guidare un camion”.
Non male, per uno che ha ricevuto grandi lodi persino dall’accademico ambiente della musica lirica.
Non fa nulla. Non riesce a far nulla. Quando ne ha la possibilità si buca, e basta.
Alla fine qualcosa dentro di lui si spezza. Oppure glielo spezzano. Vuole tornare al suo lavoro, alla sua ragione di vita. Ha bisogno di denaro. Ha bisogno di un pubblico, di chi l’ascolti.
Alla fine di quei due anni ritorna, ed è un altro scriverne: perché l’uomo che rimette piede sulle scene ed in sala di registrazione (“Greetings from L.A.”, nuovo album), anche se è come prima un eccezionale interprete, si fa accompagnare da una musica lievemente ottusa ed un po’ fracassona.
Una sterzata talmente brusca che vien da pensare ad un colossale scherzo, uno sberleffo rivolto al mondo, una maniera per dire “volevate questa roba? Eccovela. Farò quel che devo”.
Così che “Greetings...” contiene una base musicale greve, un rock-blues appesantito dal funky di una sezione ritmica che ignora i mezzi toni. I testi sono infarciti di pesanti allusioni sessuali, e le sue dichiarazioni sull’argomento (“Jagger e Morrison sono sex symbol, ma non hanno mai scritto niente di veramente esplicito sul sesso. Ora voglio farlo io”) fanno mestamente sorridere, soprattutto pensando a quando la sensualità nasceva spontaneamente dal suo canto senza bisogno di sotterfugi.
E’ difficile pensare agli ultimi lavori di Buckley (“Greetings...”, poi “Sefronia” e “Look at the fool”), tra il ‘73 ed il ‘75, come alla prosecuzione del viaggio interrotto nel 1971. Certo non è tutto da buttare; in alcuni momenti la personalità di Tim riesce a tenere in piedi arrangiamenti inadeguati, col risultato di produrre anche brani notevoli come Sweet surrender o Who could deny you.
Talento e qualità vocali intatte, quindi, ma niente è come prima. Negli anni delle ultime incisioni si ripulisce dalla droga, riprende a fare pratica e conduce una vita sostanzialmente sana; su disco e dal vivo il suo modo di cantare è sempre brillante, con il suo stile vertiginoso e la passione che riesce ad infondere in ogni parola. Però niente è come prima.
In una lettera del 13 settembre 1974 scrive: “cosa c’è da dire? Sei quello che sei, conosci quello che conosci, e non ci sono parole per la solitudine, nera, amara, dolente solitudine, che rosicchia le radici del silenzio nella notte...”.
Tim Buckley adesso si comporta da persona (da musicista) “ragionevole”, ma probabilmente quello che deve fare lo fa senza gioia. E si sente solo, ed isolato.
Tim Buckley muore a 28 anni, proprietario unicamente della sua chitarra e del suo amplificatore.
“Molto dopo la sua morte, ho capito che scrisse poche canzoni che non contenessero la parola casa. Era come se si sentisse un vagabondo, e nulla poteva rincuorarlo”.
“Come autore di canzoni era semplicemente magnifico. Come cantante, beh, nessuno era in grado di fare le stesse cose, nessuno”.
“Era un genio in tutti i sensi. Dovrebbe essere messo sullo stesso livello di Edith Piaf e Miles Davis”.
“I quattro cavalieri di una particolare apocalisse: Hendrix, Joplin, Morrison e Buckley”.
Da Larry Beckett, Hal Wilner, Danny Thompson ed altri.Tim non ha lasciato diretti eredi musicali. Troppo unico e personale, il suo talento. Anche se si può condividere con la sua figura un patrimonio che è quello della curiosità, del desiderio di scoprire e collegare tra loro mondi anche apparentemente lontani, della ricerca interiore.
Certi sperimentatori sono una compagnia che avrebbe forse gradito; Captain Beefheart, lo straordinario Scott Walker, l’estrema Diamanda Galas.
Però, personalmente, darei non so cosa per scoprire un impossibile nastro inedito, inciso in una sola notte a Cucamonga, dove Buckley diretto dal Maestro Zappa si diletta in chissà quali follie.
Jeff Buckley morì 22 anni dopo suo padre, annegato nell’acqua di un fiume. La stessa acqua che circondava tutt’intorno l’amore meravigliosamente cantato in Song to the siren.
Per entrambi, così tanto da dire e così poco tempo per poterlo fare.
sabato 15 dicembre 2012
Tim Buckley - Parte 3a
Tim Buckley
Monografia - Parte 3a
Dopo la realizzazione del disco Buckley s’imbarca in un tour
in Gran Bretagna. Essendo un’operazione a budget limitato, lo seguono solo
Underwood e Friedman contando sul fatto che ad attenderli a Londra c’è Danny
Thompson, contrabbassista dei Pentangle. La serata alla Queen Elizabeth Hall
viene registrata ma pubblicata (titolo, “Dream letter”) solo 22 anni dopo, nel
1990 (le vie dell’industria discografica sono come quelle della Provvidenza:
imperscrutabili, anche se meno disinteressate). Quei nastri mostrano un Buckley
in gran forma, capace di produrre una performance intensa; l’assenza delle
percussioni è bilanciata dalla grande sicurezza dei musicisti e dal calore
della voce (notevole la versione di Dolphins di Fred Neil, nel segno di
un ideale passaggio di testimone). Il suono è morbido, raffinato e parrebbe
addirittura precorrere, nell’intreccio tra il clangore sordo della 12 corde ed
il soffice timbro del vibrafono, alcune incisioni di Ralph Towner e Gary
Burton, in ambito strettamente jazzistico (“Matchbook”, 1974).
Contemporaneamente qualcosa comincia a cambiare nel suo
rapporto con il pubblico. Sempre più spesso, durante i concerti, dall’uditorio
partono richieste perché torni all’antico, allo stile più rassicurante dei
primi due dischi. La critica non l’aiuta di certo, anzi: alcune recensioni
dell’epoca, a dire il vero notevolmente miopi, parlano delle sue esibizioni in
termini di ginnastica vocale, definendo il suo stile come autoindulgente.
Tim Buckley non ha la minima intenzione di fermarsi, o anche
solo di rallentare la sua ricerca di qualcosa di “altro”. Nei concerti sperimenta
con l’emissione vocale, dilata la durata dei brani, mette in mostra
un’inquietante vena a metà tra l’onirico e l’allucinatorio, vagamente
somigliante a quella dell’amico Jim Morrison. Ha prodotto il suo disco più
jazzistico ed ora vuole andare ancora più avanti, mentre in molti vorrebbero
che se ne stesse fermo e quieto: dopo tutto, non era avviato verso il successo?
“Blue
afternoon” esce nel 1969. Inizia la collaborazione con la Straight , giovane
etichetta di Cohen e Zappa, limitando le scorribande improvvisate che
caratterizzano ormai tutti i suoi concerti, per recuperare frammenti del clima
di “Happy / Sad”. Il disco è una splendida incisione, ricca di toni malinconici
e profonda tristezza. “Non c’è ricchezza che compri il mio orgoglio / non c’è dolore
che purifichi la mia anima / no, soltanto una melodia triste / che salpando si
allontana da me”.
Da Blue melody, ma è quasi tutto il disco che si
dipana su sentieri che paiono oscillare tra il rimpianto ed un profondo senso
di perdita.
Per un musicista così sincero verrebbe quasi da pensare al
manifestarsi di tendenze depressive; forse l’uso di droghe, forse i ricordi di
un’infanzia difficile (il padre, sofferente di una ferita alla testa dalla
seconda guerra mondiale, trattava Tim come un idiota, cercando di inibire il
suo talento anche con le percosse), forse un insieme di reagenti il cui
accumulo è semplicemente catalizzato dal fatto che Buckley scava dentro di sè
per cercare i gioielli più preziosi: il suo è davvero un viaggio interiore, se
mai ce n’è stato uno. Per esprimersi come sa scortica la sua psiche, senza
paura di farsi del male.
“Happy /
Sad” e “Blue afternoon” sono flop commerciali. Chi vuole questa musica?
Difficile da etichettare, a volte difficile da ascoltare, difficile persino
lui, l’uomo, così poco incline ai compromessi. Niente denaro, niente fama,
niente prima pagina su Rolling Stone: l’attenzione degli altri, l’affetto di
chi ama la sua musica, queste sì, le cercherà per tutta la vita ma fuori da
ogni soddisfazione mercantile.
La sua vecchia label, Elektra, gli chiede di onorare il
contratto rendendosi disponibile per un’ultima incisione. Tim s’appresta ad
entrare di nuovo in sala di registrazione, ma non intende lasciare l’etichetta
di Holzman facendo solo atto di presenza. Così “Lorca”, 1970, dedicato al poeta
spagnolo Federico Garcia Lorca, diventa il disco che più dei precedenti si
sporge verso l’ignoto.
Via il vibrafono, via il folk, lontano persino dalla
forma-canzone come la conosciamo.
Il brano iniziale è un oggetto di fattura così strana e
spaventosa che pare uscito dalla bottega di un alchimista, indaffarato con
sostanze di natura diabolicamente incerta. Le prime note sembrano montate in un
collage schizofrenico, strappate dalla colonna sonora di una film di
fantascienza di serie B: Lorca è definibile “canzone” per pura
convenienza. Per dieci minuti un pedale insistito di basso, in un dissonante
5/4, fornisce una stranita piattaforma su cui volteggiano le tastiere e la voce
di Tim: su e ancora più su, con glissati, quasi-recitativi, vibrati epilettici,
poi di nuovo giù ad appoggiarsi a quel pianoforte che ricorda i primi
esperimenti elettrici di Davis.
Una canzone inquietante, a dir poco; tutt’altro che
perfetta, formalmente, ma di materia così densa da lasciare senza fiato. Anonymous
proposition, il solco successivo, anche se armonicamente più strutturato
rimane lontano da moduli standardizzati. Una melodia di grande lirismo, dal
canto quasi trattenuto, imbrigliato, scorre su un sottofondo lentissimo, con i
musicisti a fornire un colore più che un ritmo.
Gli altri tre brani sono meno lontani dai tempi di “Happy /
Sad” ma ad ogni modo diversi, più lunghi, dilatati, non a caso ripresi mille e
mille volte nelle spericolate esibizioni dal vivo.
Una cosa è certa: con un disco come “Lorca”, splendido ma
con potenziale commerciale pari a zero, Buckley s’allontana sempre di più dal
mercato, che non ha bisogno di roba come quella. Però lui tira dritto, e pensa
ad un nuovo lavoro. Uscirà quattro mesi dopo, si chiamerà “Starsailor”.
Racconta Underwood: “visitammo un negozio di dischi
scegliendo album di Berio, Xenakis, Cage, Stockhausen. Il giorno dopo gli dissi
devi ascoltare questa cantante, Cathy Berberian, canta due pezzi di Berio. Lei
chioccia, gorgoglia, sospira, ulula, barbuglia, urla, piange, grida, geme:
ancora non la conosci, ma troverai l’affinità musicale che stai cercando”.
In realtà c’è già tutto Buckley in quell’elenco, ci sono le
cose che fa in concerto e finiscono nei dischi: si capisce bene come mai a quel
tizio che nel mezzo di un’esibizione gli chiese “perché non suoni Buzzin’
fly?” (un suo brano più tradizionale), il cantante rispose “perché non
suono merda di cavallo.”
Riportarlo indietro è impossibile. Il piacere che prova
nell’esplorare e scoprire nuove vie è pari solo a quello di ricercare nuove
possibilità per la voce; in questo periodo il suo modo di cantare è
definitivamente maturato ed è completamente padrone di una tecnica e di una
espressività stupefacenti. C’è un’intervista in cui si coglie il suo approccio
alla sostanza musicale, un mix di istinto e meditata lucidità.
“Quando metti Miles Davis, Eric Dolphy o Roland Kirk da una
parte ed il rock dall’altra, il rock suona come fosse completamente
prefabbricato. La ragione per cui mi piacciono Miles e gli altri è perché la
loro musica nasce dalla comunicazione tra quelli che stanno suonando. Ogni nota
è così studiata, nel rock, che quando qualcuno prende una nota sbagliata gli
altri non sanno che fare. Non dimenticherò mai di aver sentito Roland Kirk
suonare una nota sbagliata, ascoltarla, e in una frazione di secondo integrare
quella nota nel sound generale e portarla da qualche altra parte. Non è un
errore, davvero... è la vita. Io ci penso come ad una musica spirituale, perché
suonare una musica come quella ti dà fiducia in te stesso e nella gente con cui
suoni”.
“Live at the Troubadour, 1969” , pubblicato nel 1994,
contiene alcuni passaggi che spiegano nei fatti le parole di Tim. Se il lessico
di base della sua musica appartiene certamente al rock (o folk-rock), i
linguaggi da cui pesca la sua ispirazione sono affatto diversi. In questa
registrazione dal vivo (eccellente testimonianza del periodo immediatamente
precedente a “Starsailor”) troviamo contemporaneamente una Blue melody
suonata come un languido, lento cha-cha-cha, l’occasionale serenità di I had
a talk with my woman e solidi riferimenti al jazz, come il piano elettrico
di I don’t need it to rain che s’ispira al Davis di “In a silent
way”. Anche le parole delle canzoni sono elementi da trattare con un approccio
originale. Buckley azzarda un parallelo tra la propria esperienza e quella di
John Coltrane, alla ricerca del suono universale: “sentivo Coltrane vicino come
nessun altro. Anch’io ho cominciato a cantare in lingue differenti, swahili,
per esempio, proprio perché suona meglio. Uno strumentista può essere compreso
in qualunque modo, ma la gente è condizionata ad ascoltare solo parole uscire
da una bocca... io mi sto orientando verso parole con un grande suono. Se
facessi a modo mio, le parole non avrebbero significato. Sarebbe uno shock per
la gente. Sarebbe salutare”. Magari solo per caso, ma riecheggia in queste
righe la beffarda considerazione del Gran Maestro Francesco Zappa, che ebbe a
sentenziare “nel rock’n’roll le parole delle canzoni non sono altro che rumori
intonati alla musica”: d’altra parte, il Maestro avrebbe gradito (e forse
gradì) ascoltare Tim che affermava “i suoni sono il mio business. Se usata
bene, qualsiasi cosa è musica”.
Continua per l'ultima parte...
venerdì 14 dicembre 2012
Tim Buckley - Parte 2a
Tim Buckley
Monografia - Parte 2a
1967, Buckley ha vent’anni e due dischi all’attivo. La sua
carriera non sembra per il momento discostarsi di molto da quella di altri
cantautori (termine che però d’ora in poi non avrà nessun significato
tradizionale in relazione a lui), soprattutto quelli più coinvolti nell’area
del folk rock.
A voler essere pignoli, oltre l’ispirazione dai soliti
Dylan, Phil Ochs, Tim Hardin e del grande Fred Neil, fa già capolino nella sua
musica qualche idea che potrebbe allargare i possibili orizzonti sonori del
futuro; l’utilizzo insistito delle percussioni, ad esempio (I never asked),
che a volte creano ritmi decisamente sincopati, qualche sobrio arrangiamento
scampato alle necessità discografiche e naturalmente l’uso della voce. Se Neil
ha insegnato ai ragazzi cuor-d’oro-e-chitarra-in-mano che si può cantare su
tonalità più basse e calde, se Dylan borbotta, fa i gargarismi e par che canti
solo con il naso, chi canta come Tim? Chi può portare la propria voce su in
alto, oltre il crinale del falsetto, per ridiscendere in meno di un beat a toni
da baritono? Buckley è musicista puro e la voce il suo strumento.
“Odio proprio quei coglioni. E’ come dicessi ok coglioni,
volete una canzone di protesta e qui ne ho una. Stavano facendo un gran casino,
così ho pensato è solo per questa volta e poi non dovrò più rifarlo”.
“Parlare di guerra è inutile. Che cosa puoi dire? Vuoi che
finisca ma sai che non sarà così. La paura è un soggetto limitato ma l’amore
no. E non intendo tramonti ed alberi... Sono coinvolto nelle cose dell’America,
dalla gente, non i politici. Tutto quello che posso vedere è ingiustizia”.
Alcune differenze cominciano a farsi visibili.
Tim Buckley sta su un palco a far sì che la propria musica e
la propria esistenza siano la medesima cosa. Non ha nessun messaggio. No man
can find the war, la canzone cui fa riferimento nell’intervista, è stata
incisa senza che a lui importasse troppo. E non tanto della guerra, bensì della
relazione tra la sua musica ed il movimento, o delle parole d’ordine. Nè
profeta nè insegnante.
Il suo è un percorso tutto interno, spesso interiore;
bisognerà riconoscere nei semplici segnali della sua arte il valore
rivoluzionario (letteralmente) che essa contiene, senza necessità di farla
appartenere ad altri contesti.
Non che sia un eremita od un asceta: tutt’altro. Comincia a
far uso di droghe, mentre il suo fascino fa colpo e in Sunset Strip campeggia
una sua gigantografia: “Goodbye and hello” arriva al 171° posto (!) della
classifica di Billboard, miglior piazzamento di sempre per un suo disco.
Ma gli importa?
Pian piano entra in guerra con gli aspetti più ipocriti e
commerciali del mondo dello spettacolo.
“Tutto quello che la gente vede sono pantaloni di velluto e
lunghe chiome bionde. Qualcuno che si realizza portando camicie a fiori, quelle
sono le buone vibrazioni, per loro”.
Lee Underwood, chitarrista, amico e testimone privilegiato
della parabola musicale di Tim, racconta che egli “vedeva il rock blues così di
moda come un furto da parte dei bianchi, un inganno emotivo. Criticava quei
musicisti che impiegavano tre settimane imparando i trucchi di Clapton, mentre
Charles Mingus aveva speso un’intera esistenza per far vivere la propria
musica”.
Non era davvero tenero, Buckley, nè con i discografici nè
con i colleghi del flower power; nel ‘69, ad un amico che gli chiedeva di
andare a Woodstock, rispondeva “ma ci vai davvero? Ragazzo, sarà spaventoso”.
E’ ancora Underwood che ricorda: “dopo Goodbye and hello
venne da me: jazz, mi disse. I rockers pensano che sia musica da cocktail.
Cristo. Prendono un bel ragazzino là fuori, lo ricoprono di lustrini e make-up,
collegano la sua chitarra a qualche ampli, gli dicono suona il blues, man, e
pensano di vivere nella realtà. Suonami della musica, Lee”.
Comincia un periodo in cui Tim s’immerge completamente
nell’ascolto e nello studio della musica di Miles Davis, John Coltrane, Bill
Evans, Thelonius Monk, Ornette Coleman ed altri. Quelle che erano
caratteristiche latenti della sua personalità musicale diventano, più che
palesi, esplosive.
Via gli arrangiamenti orchestrali, gli appesantimenti da pop
song: il suono diviene scarno ed immediatamente riconoscibile. Si fa strada con
prepotenza, quasi come una verità rivelata ed attesa da tempo, l’idea forte che
costituirà il linguaggio preferito di Buckley: l’improvvisazione. Sempre di più
e sempre meglio la sua voce si anima come uno strumento in mano ad un virtuoso,
senza alcuna limitazione alle possibilità espressive.
Il terzo disco, “Happy / Sad”, esce nel 1968: la via è
davvero diversa, radicalmente. Il suono, innanzi tutto. Tim guida una
formazione non molto ortodossa, con il fido Underwood alla chitarra, John
Miller al contrabbasso, David Friedman al vibrafono e Carter CC Collins alle
congas.
Se la 12 corde del leader (che sosteneva “m’impedisce di
cadere nelle solite banalità che tutti suonano sulla 6 corde”) rimane un solido
aggancio al passato folk, il resto è aria nuova. “Happy / Sad” mostra quanto
potrà andare lontano la musica di Buckley. Già il brano d’apertura, Strange
feeling, impone un moto di stupore, con quelle dissonanze dal vibrafono,
poi il riff di chitarra, un 3/4 già sentito... sicuro, è un bell’omaggio al
Davis di All blues. Se per comodità l’etichetta appiccicata a Tim da
questo disco è quella di folk jazz, la verità non sta tanto lontana; la
struttura dei brani è per la maggior parte tradizionale, le armonie sono il più
delle volte semplici anche se jazzisticamente trattate (“il jazz non è che cosa
suoni, ma come lo suoni”, Bill Evans). Van Morrison, in “Astral weeks”, si
avvicina allo stesso risultato partendo da presupposti non troppo dissimili.
Le corde vocali di questo ventunenne col viso da angelo
triste, dopo mesi passati in compagnia della più bella musica afroamericana,
fanno letteralmente drizzare le orecchie; un’intensità ed un’emozione tali da
far sembrare che qualsiasi strofa di qualsiasi canzone contenga un pezzo della
sua esistenza. Non c’è bisogno di definizioni astruse: la sincerità è evidente,
la dedizione al canto, totale. Anche se per il resto della sua vita continuerà
a studiare, allenarsi, imparare, ci sono già in queste tracce qualità vocali
tali da annichilire la quasi totalità di coloro che hanno mai posto la bocca
davanti ad un microfono.
“Happy / Sad” è un disco bellissimo, dal suono molto
caratterizzato e pienamente riuscito, nonostante l’inusualità dell’impasto
strumentale. Le canzoni sono sei, senza nessun vincolo con qualsivoglia
esigenza commerciale. Tim suona e canta come vuole. Un brano, in particolare,
ci proietta già nel futuro del ragazzo prodigio: Gipsy woman, dodici
minuti per un autentico capolavoro. Su un ritmo fortemente sostenuto dalle
congas e ricamato da splendidi riff di chitarra, la voce tiene alta la tensione
dal primo all’ultimo secondo, gridando, sussurrando, graffiando o accarezzando:
“cast a spell on me...” è contemporaneamente preghiera ed imprecazione.
Continua...
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giovedì 13 dicembre 2012
Tim Buckley - Parte 1a
Tim Buckley
Monografia - Parte 1a
“Quando un artista è finalmente passato attraverso tutta
questa confusione, allora si può ascoltare una voce pura. Noi siamo abituati ad
imitare queste voci quando ormai se ne sono andate.”
(Tim Buckley, tre mesi prima di morire)
“L’ho visto crescere, da ragazzino con occhi da Bambi,
balbettando poesiole su cuoricini di carta e Valentine, fino a diventare un
rocker coi capelli al vento, poi un genio mattoide dell’improvvisazione vocale
che spazzava via chiunque altro, poi alla fine un volgare, eccitante ballerino
da roadhouse che iniettava vapore, sangue e linfa in un rhythm & blues di
cui nessuno si curava.”
(Lee Underwood, chitarrista, nell’orazione funebre per
l’amico Tim Buckley)
“Non riusciva ad andarsene, non ci riusciva e non ci riusciva
e poi – come una qualsiasi stupida creatura che all’improvviso smette di fare
una cosa e comincia a farne un’altra e tu non riesci a capire se la sua vita
sia il massimo della libertà o ne sia completamente priva – riuscì e se ne
andò.”
(Phlip Roth, Il teatro di Sabbath)
Perché qualche riflettore, ciclicamente, puntasse la propria
luce su Tim Buckley, sono state necessarie due morti ed un tentativo di
resurrezione.
La prima scomparsa fu ovviamente la sua, il 29 giugno 1975, a 28 anni.
La seconda fu quella del figlio, Jeff, il 29 maggio 1997, a 30 anni.
Il timido tentativo di resurrezione riguardò invece la sua
musica, quando per un breve istante, nel 1983, qualcuno tra i non addetti ai
lavori si chiese chi fosse quel T. Buckley la cui firma come autore compariva
sotto il titolo di una canzone che, nonostante fosse stata partorita in una
piccola clinica, lontano dai fasti dei reparti di ostetricia dei più grandi
ospedali discografici, crebbe discretamente robusta e si fece ascoltare da un
po’ di gente.
La melodia, malinconica ed indimenticabile, era quella di Song
to the siren, che This Mortal Coil interpretavano con grande rispetto
dell’originale: ma, finito l’effimero successo, la curiosità per quella T
puntata svanì, e così anche la possibilità di ri-scoprire l’affascinante e
sofferto viaggio di uno dei più audaci e talentuosi esploratori del suono negli
anni ‘60/’70 e non solo.
Buckley è stato, in vita, amato, desiderato, poi snobbato e
dimenticato ed infine, probabilmente, anche compatito. Era giovanissimo e
bello, ricco di fascino (“seductive charm”, si diceva di lui) e straripante di
talento, curiosità e avidità d’imparare ed esprimersi.
La sua vita era la sua musica e questo l’ha reso capace di
inoltrarsi in regioni inesplorate ad una velocità stupefacente: forse nessuno,
nel piccolo mondo del rock, è stato così rapido a passare dal genuino candore
dell’adolescenza ad un linguaggio musicale così evoluto, magmatico e ricco.
La metafora della cometa, velocissima e bruciante, è per il
Nostro (o per parte della sua vita) tanto abusata quanto azzeccata.
Timothy Charles Buckley III nasce il giorno di s. Valentino
del 1947, vicino a New York. Dalla costa est la famiglia si trasferisce in
California al principio degli anni ‘60.
Ad Anaheim, racconterà Tim, passa molti pomeriggi ad
impegnare la sua voce in insoliti duelli sonori con i clacson degli autobus.
L’idea di estendere i limiti estremi delle sue corde vocali gli sarebbe venuta
dopo aver ascoltato gli affascinanti ed opposti timbri di una tromba e di un sax
baritono, in qualche disco di famiglia.
In casa Buckley si passa da Billie Holiday e Bessie Smith,
care alla nonna, all’ammirazione della madre per Frank Sinatra ed il jazz di
Nat King Cole e Miles Davis. Però è il country che inizialmente coinvolge maggiormente
il ragazzo: l’ascolto di Johnny Cash e Hank Williams lo porta anche a mettere
le mani su banjo e chitarra.
A 17 anni tiene già qualche concerto in piccoli clubs, e a
sentire Jim Fielder (compagno di liceo e poi bassista di una certa fama
soprattutto con Blood Sweat and Tears) a quell’età la sua voce è completamente
formata, con un’estensione di 4 ottave (in un diciassettenne...),
un’intonazione perfetta ed un controllo totale. Quello che Fielder chiama “un
dono di Dio”, quella incredibile, unica voce, accompagnerà Buckley fino al suo
ultimo giorno: anche nei periodi peggiori, nei dischi incisi con poca
convinzione, nella musica che a volte aleggiava attorno a lui come un
fastidioso brusio, la sua voce ed il suo canto non saranno mai meno che perfetti.
Princess Ramona and the Cherokee Riders è l’improbabile nome
del primo gruppo con cui si esibisce, in un repertorio country & western.
Poi il raggiungimento dei 18 anni segna un cambio di direzione musicale, con la
creazione contemporanea di due bands, i Bohemians con cui esegue covers di
famosi brani pop e gli Harlequin Three, orientati verso un’eccentrica miscela
di folk e poesia grazie anche alla presenza dell’amico poeta Larry Beckett, che
lavorerà con lui per diverso tempo.
Dopo aver optato per gli Arlecchini Buckley comincia sempre
più spesso a veder associato il proprio nome a quelli di altri due giovani
personaggi come Steve Noonan e Jackson Browne (futuro soft-rocker di gran
successo), grazie alla stampa musicale che vagheggia di una (inesistente)
scuola cantautorale di Orange county. Comunque sia il nome di Tim comincia a
circolare per Los Angeles trascinandosi appresso lusinghieri commenti: il già
citato Jim Fielder presenta così il ragazzo a Jimmy Carl Black, batterista
delle Mothers of Invention, che a sua volta lo fa incontrare con Herb Cohen,
manager di Zappa e di Captain Beefheart.
Cohen è immediatamente colpito dalle
sue doti e spedisce un demo tape a Jac Holzman, proprietario della Elektra
records, proponendogli di metterlo sotto contratto: la strada per il primo
disco è spianata.
“Tim Buckley” esce
nel 1966 ed è il punto di partenza per giudicare l’impressionante evoluzione
della sua musica. A cominciare dalla voce, che appare davvero come un dono del
Signore.
Come spiegare altrimenti in un diciannovenne un timbro tanto
bello quanto apparentemente maturo? Profondo, capace di mutare senza alcuna
fatica in tenore o baritono, il colore della sua voce affascina immediatamente,
già abbastanza lontano dai modelli che il rock può offrire in quel momento. La
musica è legittima figlia di quel periodo e di quel genere, un folk
addomesticato con il suono tipico del tentativo di raffinare canzoni
originariamente voce-e-chitarra, e con pesanti interventi in studio.
Del medesimo eccesso di produzione soffrirà anche l’LP
successivo, “Goodbye and hello”, del 1967, che avvicina ancora di più Tim al
suono folk - rock.
Il produttore è Jerry Yester, che forse per un attimo
accarezza l’idea di trasformare Buckley in qualcosa di simile ad un romantico e
sofisticato menestrello per teenagers (Yester è anche produttore dei Lovin’
Spoonful). L’operazione non riesce, il disco soffre in ogni caso di
appesantimenti ed inutili orpelli (le partiture per orchestra della title
track, ad esempio), anche se alcune canzoni sono già sufficienti per valutare
la rapida maturazione di Buckley. Once I was, tenera ballata con rapide
impennate della voce, come diventerà suo stile da lì in poi, Morning glory,
sulla stessa lunghezza d’onda, ripresa inoltre dai Blood Sweat and Tears dell’amico
Fielder. Un brano su tutti, però, mette a nudo l’anima del ventenne Tim, il
filo che collega la musica e la vita, che per lui non avranno mai significati
separati. I never asked to be your mountain è una lettera alla moglie,
Mary Guilbert, che gli ha chiesto di fare un passo indietro dai territori della
musica per dedicarsi al bambino nato da poco, Jeffrey Scott detto Jeff. La risposta del padre è “non ho mai chiesto di essere / la
tua montagna”: non sono in grado, non posso, non voglio. Ed è una risposta
urlata a gran voce su un ritmo concitato, un lungo testo su cui il canto di
Buckley s’arrampica cominciando a percorrere quei sentieri impervi e diversi
che ritroveremo sempre più spesso, divenuti intricati come una giungla.
Questo mancato rapporto col primo figlio (l’incontrerà anni
dopo, una volta sola, quando Jeff avrà otto anni) peserà in realtà su Tim per
lungo tempo, e al bambino dedicherà una splendida canzone piena di rimpianto, Dream
letter, le cui strofe suoneranno addolorate al punto da sembrare patetiche:
“E’ un soldato o un sognatore? / E’ il bravo ometto di mamma? / Ti aiuta quando
può? / O chiede di me?”.
E’, in ogni caso, la propria vita messa in versi e cantata,
con quel canto che non nasconde nulla, che di Tim proietta anima e sentimenti
con una sincerità percepibile ed a volte disarmante.
Come sei quello che mangi, così sei quello che canti.
Continua...
Evento: The Unbeat Generation
Il 23 Dicembre si terrà uno spettacolo, facente parte della rassegna di Teatro, Danza e Musica promossa dal comune di Reggio Emilia ed organizzata dalla compagnia del "Teatro del Cigno", dedicato agli autori della Beat Generation e della musica americana.
Si alterneranno brani musicali eseguiti dal chitarrista Franco Montanari e letture dell'attore Luca Criscuoli.
Per trascorrere una giornata festiva diversa dal solito, ritagliateVi un'oretta di spazio per godere della compagnia degli amici, di buona musica e teatro.
Officina delle Arti - Officinalia
via Brigata Reggio, 29
Reggio Emilia
23 Dicembre 2012 Ore 18.00
Evento disponibile anche su Facebook al seguente link: The Unbeat Generation
Informazioni più dettagliate sul seguente sito: Officinalia-Comune Reggio Emilia
F.M. Staff
Si alterneranno brani musicali eseguiti dal chitarrista Franco Montanari e letture dell'attore Luca Criscuoli.
Per trascorrere una giornata festiva diversa dal solito, ritagliateVi un'oretta di spazio per godere della compagnia degli amici, di buona musica e teatro.
Officina delle Arti - Officinalia
via Brigata Reggio, 29
Reggio Emilia
23 Dicembre 2012 Ore 18.00
Evento disponibile anche su Facebook al seguente link: The Unbeat Generation
Informazioni più dettagliate sul seguente sito: Officinalia-Comune Reggio Emilia
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Teatro del Cigno
mercoledì 12 dicembre 2012
Monografie, preambolo
Le tre monografie che aggiungerò nei prossimi giorni su questo blog sono state pubblicate
nell’arco di poco più di un anno, tra la fine del 1998 e l’inizio del 2000,
dalla rivista musicale Tempi Dispari.
Due di esse riguardano straordinari personaggi che all’epoca
avevano purtroppo già abbandonato questa valle di lacrime, Tim Buckley e Kurt
Cobain. L’altra riguarda gli XTC, gruppo attivo dalla fine degli anni ’70 ma
ben presto relegato ai trafiletti più brevi delle cronache musicali.
Mentre le rileggevo mi rendevo conto di quanto poco sia cambiato,
nella sua natura essenziale, il rapporto tra musica ed industria, compresa
l’inevitabile presenza della “variabile” mass-media.
Basterebbe aggiornare da un punto di vista tecnologico il
linguaggio (aggiungendo accenni a CD-DVD-I Pod e supporti vari, a YouTube, alla
musica diffusa e venduta su Internet, alla pratica del file sharing, eccetera)
per rendere quasi perfettamente attuale la sceneggiatura di un dramma come
quello di Buckley, schiacciato da un apparato mercantile-discografico incapace
di riconoscere e proteggere l’autentico genio. O di una farsa come quella degli
XTC, probabilmente i massimi autori di pop da molto tempo a questa parte, ma
increduli anni fa nel sentirsi chiedere dai loro discografici se non era
possibile riciclarsi come gruppo di hard rock (per quanto riguarda Cobain,
invece, basterebbe pensare a come il mondo dei media e dello show business ha
impattato la sua vita, a quello che oggi sorbiamo senza un lamento chiamandolo
“informazione”).
Il mercato della musica è veramente strano: buffo, persino.
Mentre le tecnologie informatiche permettono da molto tempo un uso a 360°,
diciamo così, di pratiche come campionamenti ed estrazioni di frammenti da
altri brani (producendo parodie, citazioni esatte, singole cellule ritmiche e via
dicendo), le politiche sul diritto d’autore fanno fatica a staccarsi da logiche
degli anni del grammofono. Per non dire delle lagne sulle masterizzazioni
pirata, come se fosse invenzione recente l’idea di registrare un disco di
proprietà di un amico per evitare di acquistarlo.
Al tempo stesso, ricordo che tre anni fa mentre rileggevo una
prima volta queste monografie per correggerle, assegnavano i Grammy 2008 e
vinceva un signore che allora andava per i 61 anni, Robert Plant, che dichiarava
col premio ancora in mano “Ai vecchi tempi avremmo etichettato questa serata
come commerciale, ma in fondo è un buon modo per passare una domenica”. E il
suo “Raising Sand”, firmato con Alison Krauss, era prodotto e suonato con T-Bone
Burnett e Marc Ribot, non esattamente ragazzini di primo pelo.
Strano, no? I Grammies sono una delle massime espressioni
autocelebrative del music business (non a caso nel 2009 erano ospiti previsti
nella serata i soliti Justin Timberlake, Rihanna, Boyz II Men e via
glamoureggiando). Business che notoriamente, per dirne una, considera
economicamente appetibile soprattutto la fascia d’età tra i 12 ed i 20-22 anni.
Fascia i cui interessi, presumibilmente, non prevedevano e non prevedono
l’acquisto di un cd inciso dall’ex cantante degli Zeppelin e da una stella del
country.
Quindi strano, sì, un po’ strano. Soprattutto perché allora c’avevano azzeccato in pieno. Il
disco è magnifico...
Buckley ha graffiato la musica del suo tempo da una
traiettoria esterna, ellittica.
XTC hanno scavato dall’interno del moloch cercando uno
spiraglio di luce.
Cobain ha demolito, schiacciato, triturato, rendendo
impossibile l’impassibilità.
Tutti quanti hanno reso la musica per un breve tratto di
tempo un poco più vitale ed autentica.
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domenica 2 dicembre 2012
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