Kurt Cobain
Monografia - Parte 4a (conclusione)
“Avevo la responsabilità di non far sapere ai ragazzi che
usavo la droga”, KC.
Il problema della sua tossicodipendenza, dopo un’iniziale
negazione, va a far parte integrante delle leggende del personaggio. Che si
tratti di un ingenuo intento pseudoterapeutico (“il dolore allo stomaco mi
faceva venir voglia di morire... all’inizio, dopo tre giorni di eroina, non
avevo più il dolore e presi la decisione di farmi per un anno e poi smettere,
perchè non volevo morire”, KC) oppure no, non ha una grande importanza, visto
ciò che scrive per esempio il Los Angeles Globe. Cioè che Cobain è drogato, che
sua moglie Courtney Love del gruppo Hole è drogata, che la loro bambina Frances
Bean nascerà drogata.
Come sempre, un purtroppo naturale processo di
normalizzazione ha steso la sua lunga mano a smussare gli angoli più acuti
della scena alternativa. Dell’iniziale impeto qualcosa è rimasto e rimarrà, i
Pearl Jam ad ingaggiare una solitaria ma perdente battaglia contro l’agenzia
che detiene il monopolio sulle prevendite dei biglietti in USA, la
Ticketmaster; gli stessi Nirvana che combattono il tentativo di condizionare la
loro esibizione allo spettacolo degli MTV Video music Awards. Ma normalizzare è
la norma: e quando la musica, medium potente, è anche influenza sui costumi e
le mode, è addirittura inevitabile.
Tra il ’92 e il ’93 la popolarità del trio cresce a
dismisura, mutandosi in ingombro. Le droghe, i problemi di salute, gli
atteggiamenti rissosi e poco concilianti, insomma l’apparente, perfetta
aderenza allo standard “belli e dannati”, sono malignamente accolti da un
esasperante scandalismo giornalistico che prospera come gramigna.
In particolare, l’11 agosto 1992 la rivista Vanity fair
pubblica un articolo di Lynn Herschberg che avrà numerosi e perniciosi effetti
sulla vita familiare di Cobain.
La Herschberg sostiene:
- che Courtney Love possiede una devastante personalità
- che ha indotto Kurt all’uso di eroina, citando un’anonima
fonte dallo staff del gruppo
- che durante i primi mesi di gravidanza ha assunto
stupefacenti.
L’immagine che viene smerciata al mondo è quella di un
giovane schiavo dei suoi vizi e di quelli della moglie, tutt’e due talmente
persi nella spirale delle loro perversioni da far chiedere a qualcuno se sia
giusto lasciar loro la potestà della nascitura. Frances Bean viene alla luce il
18 agosto: nel giro di poche settimane un tribunale di Los Angeles stabilisce
che i genitori non possono stare da soli con la figlia. Solo nel marzo
successivo, dopo crisi depressive, cure disintossicanti, ricadute, minacce di
suicidio, l’autorità giudiziaria decreta la piena affidabilità di papà e mamma.
“A parte loro tre, tutto ciò che gira attorno ai Nirvana è
in mano a dei pezzi di merda”. Sono parole di Steve Albini, the punk stalinist,
come viene definito dalla stampa specializzata. Albini è l’uomo scelto dalla
band per produrre l’atteso seguito di “Nevermind”, seguito per il quale entrano
in sala di registrazione nel marzo 1993. Con l’ex produttore dei Pixies (gruppo
molto amato da Cobain) si lavora sodo e con rapidità, in una logica da small
combo che porta a concludere tutto in un paio di settimane. Nonostante il buon
lavoro di Albini sia riconosciuto, le incisioni provocano lo sconcerto di
alcuni manager e, tutto sommato, non soddisfano completamente nemmeno i
Nirvana. Lo stalinista punk, affermando d’aver esaurito il suo compito, accetta
di buon grado l’intervento di Scott Litt, produttore dei REM, per un parziale
remixaggio. In settembre esce quello che doveva intitolarsi prima “I hate
myself and I want to die”, poi “Verse chorus verse”: adesso è “In utero”.
Ogni cosa in questo disco, dalla copertina alla musica, dai
testi al clima che è in grado di suscitare, sembra rechi con sé un’ombra cupa,
dolente e minacciosa; l’energia in alcuni momenti sfocia in autentica violenza
sonora e vira verso un segno negativo. Non più marchio della propria presenza,
ma sfregio. Arma più che vessillo.
Dal punto di vista timbrico (qui, soprattutto, i risultati
di Steve Albini) è un viaggio all’indietro nel tempo: “In utero” recupera,
aggiungendovi pienezza ed una certa dose di fascino “naturalistico”, quasi da
live, sonorità più tipicamente punk che ricordano a volte “Bleach”. La voce di
Kurt è spesso strozzata o, come in Milk it, ridotta ad una specie di
rigurgito amplificato.
Se “Nevermind” dava l’idea di una spinta verso l’esterno,
“In utero” è introspettivo e centripeto fin dal titolo. I testi sono ricchi di
riferimenti escatologici e corporali; Tourette’s, Cufk, tish, sips
(anagramma di fuck, shit, piss), Milk it (“ectoplasma, ecto-scheletrico
/ compleanno del necrologio”), Heart-shaped box (“vorrei poter mangiare
il tuo cancro quando diventi nera”).
Non c’è nulla di tranquillizzante in quest’opera; anche la
chiusura, affidata ad una melodia dall’andamento rilassato come All
apologies, contiene elementi d’inquietudine, con una chitarra non
perfettamente accordata la cui linea intreccia continuamente il canto.
Che sia una reazione all’esperienza di due anni al centro
dello star-system, o alle drammatiche vicende personali (o ad entrambe le cose,
com’è probabile), l’ultima testimonianza discografica in studio di Cobain, se
può essere parzialmente vista alla stregua di un diario, assomiglia ad
un’intima e nefasta confessione sulle brutture del mondo. Di più, ad una
volontà, un desiderio di ridiventare feto, chiuso, protetto ed amato: “butta il
tuo cordone ombelicale / così che possa arrampicarmi e rientrare”. Sembrerebbe
psicologismo da quattro soldi (e forse lo è, se quasi sempre “It’s only
rock’n’roll”, Jagger & Richards docet), eppure è impossibile allontanare
una costante sensazione di tristezza, di rabbia acuita da un onnipresente
malessere.
Heart-shaped box è un magnifico brano, una possibile
canzone d’amore. Che Kurt esprime così: “Mi guarda come se fossi dei Pesci
quando sono debole / sono stato chiuso nella tua scatola a forma di cuore per
una settimana / sono affogato nella tua trappola di catrame / vorrei poter
mangiare il tuo cancro quando diventi nera”.
E in Rape me: “Violentami, amico mio / violentami
ancora / non sono l’unico / odiami / fallo e fallo ancora”. Facile pensare agli
eventi legati alle intrusioni nella sua vita privata.
Rape me, con un riff che è quasi autocitazione, è in
puro Nirvana style tale e quale all’iniziale Serve the servants
(gran bel titolo, Servi i servitori): “La rabbia giovanile mi ha ben ripagato /
adesso sono annoiato e vecchio”.
Cobain affida in ogni modo alla chitarra il compito più
scabroso: impugnata come una mazza ferrata oppure come un manufatto dalle
misteriose applicazioni (Milk it), il suo strumento è perfetto per
portare la tensione emotiva alle stelle. Radio Friendly Unit Shifter è
un’impressionante fusione di riff elementari e rumorismo puro: l’assolo è una
geniale accozzaglia di feedback e violente percosse musicali. Frances Farmer
will have her revenge on Seattle
è dedicata all’attrice americana Frances Farmer, la cui persecuzione negli anni
’50 è una delle storie più tristi e vergognose che si possano immaginare; il
contrasto tra dinamiche è notevole ed il sound generale rende rabbioso
l’omaggio di Kurt: “Lei tornerà come il fuoco per bruciare i mentitori, e lascerà
una coltre di cenere sul terreno”.
“In utero” è il massimo del caos raggiunto in studio dai
Nirvana; parossismo sonoro, melodie ansiose, un’angoscia quasi palpabile: la
bellezza del disco ha un fascino più fosco che mai.
Un’analisi accurata, anche tecnica, della musica di Cobain,
sarebbe stata interessante. Quel suo utilizzare armonie sottintese o minimali,
bicordi incerti (in armonia, un accordo per essere tale deve contenere almeno 3
voci), fa risaltare ancor di più la sua capacità di scrivere melodie facendole
stagliare su un accompagnamento di tonalità ondeggiante: ma è l’aspetto che
interessa meno, a giudicare da ciò che si continua a scrivere di lui.
Mentre la stampa non demorde dal solito atteggiamento, i
Nirvana dopo l’uscita di “In utero” chiamano con loro un secondo chitarrista,
Pat Smear, ex membro dei Germs.
Nel novembre ’93 registrano dal vivo un album acustico, per
la famosa serie “MTV Unplugged”.
E’ un’altro splendido lavoro, pieno di ovattata malinconia
ma molto vitale, con diverse covers (ottima The man who sold the world
di Bowie, e Where did you sleep last night di Leadbelly è
sinceramente emozionante) e la partecipazione amichevole dei Meat Puppets. Se
c’era bisogno di una definitiva conferma sul repertorio di Kurt, eccola qui: le
sue composizioni non vivono in funzione dell’aggressività elettrica, godendo di
eccellente salute anche in atmosfere più tranquille. Anche se purtroppo, ormai,
della stessa salute non gode chi le ha ideate.
I mesi successivi sono la frenetica cronaca di una corsa
verso la distruzione.
Nel 1994, in gennaio, il gruppo tiene l’ultimo concerto in
terra americana, in febbraio inizia un tour europeo che si ferma in Germania:
altre date vengono annullate per presunti problemi di Cobain alla voce. In
marzo entra in coma, in Italia, dopo aver inghiottito decine di pillole di
Roipnol. Rientrato a Seattle, passa le settimane successive tra appuntamenti
con loschi personaggi, un ipotetico tentativo di suicidio, prove per una
terapia psichiatrica, ricoveri e fughe da un centro di riabilitazione,
occultamenti delle proprie tracce.
Il 5 aprile, scritti alcuni messaggi, si spara alla testa
con un fucile, in casa sua.
L’8 aprile un elettricista, recatosi per lavoro
nell’abitazione, scopre il corpo.
Un’ora dopo, dolore, dispiacere, commozione, isteria,
sciacallaggio, follia e rumore di registratori di cassa sono inestricabilmente
abbracciati tra loro.
Nell’Internet Nirvana Fans Club c’è una Murder Theory Home
Page, di cui Tom Grant detiene il copyright. Tom Grant è l’investigatore privato
che accusa Courtney Love d’aver fatto assassinare il marito.
I biglietti degli ultimi concerti dei Nirvana, annullati,
sono messi in vendita in Inghilterra a 100 sterline l’uno.
Nel 1995 una casa d’aste americana mette in vendita il
sangue raschiato via da una chitarra di Cobain dopo un concerto. Offerta
minima: 7500 dollari.
In un’eccellente serie a fumetti, The Preacher, lo
sceneggiatore scozzese Garth Ennis si diverte a prendere in giro
l’americanissima e para-necrofila Cobain-mania.
Uno dei personaggi secondari di questo serial è un ragazzo
che, per emulare il suo eroe, si spara in faccia un colpo di fucile. Il feroce
sarcasmo di Ennis consiste nel farlo sopravvivere in compagnia di un padre
sceriffo destrorso e paranoico, trasformandolo poi in una stella del rock ed
assegnandogli un nome d’arte programmatico: sfigurato dalla ferita, il giovane
diventa per tutti Arseface, Facciadiculo.
Un commosso articolo su Spin firmato da Charles Aaron, poco
dopo la morte di Kurt, riporta l’incredibile commento di una sociologa, Donna
Gaines: “Il suo suicidio è stato un tradimento. Esso nega un tacito contratto
tra i membri di una generazione che vedeva la dipendenza gli uni dagli altri
per rovesciare la negligenza, la confusione e la frustrazione ereditate dalla
generazione precedente. Cobain ha spezzato questa promessa. Se n’è andato”.
Aaron risponde con parole distillate dal buon senso: “Kurt
Cobain era un artista, le cui canzoni esprimevano le sue dolorose,
contraddittorie emozioni. Aveva responsabilità verso la sua arte, la sua
famiglia e i suoi amici. Non era sua la responsabilità di rovesciare la
negligenza dei genitori. Sostenere qualunque altra cosa è perversamente
arrogante”.
Figure come quella di Cobain originano a volte, nella
cultura di massa, visioni romantiche ma distorte, proiezioni di desideri e
rivendicazioni che finiscono per circondarne come un’aura l’immagine. Le frasi
della signora Gaines mostrano come nemmeno la morte interrompa quest’illusione.
Kurt Cobain era un uomo in carne ed ossa, nè più nè meno, e
le sue debolezze di uomo l’hanno portato dove per chiunque è sospesa ogni
possibilità di giudizio.
So long.